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aver scritto quelle parole. La regola « perfecta emptione statim rei venditae periculum ad emptorem pertinet », passata intatta dal diritto classico al diritto giustinianeo, non ammette infatti di concludere in guisa diversa.

Ma poichè è risultato che non possono riguardarsi come termini paralleli « vis magna, vis magna, damnum fatale » e « periculum », e che quest' ultimo comprende bensì anche la « vis magna » e il « damnum fatale », ma i suoi confini si estendono al di là, ne consegue che nel caso esaminato, supponendo il testo (salvo l'« ante admetiendi diem ») genuino, rimarrebbe addossata al venditore, anche dopo perfetta la vendita, una parte del pericolo. La qual conclusione non è sostenibile.

Anche la frase, dunque, « ut fatale damnum vel vis magna sit excusatum » non può essere genuina.

Il testo di Gaio, pertanto, tolte le parole che si sono provate essere dei compilatori, doveva originariamente suonare così: « Custodiam autem qualem praestare venditorem oporteat utrum plenam ut et diligentiam praestet an vero dolum dumtaxat videamus: et puto et diligentiam venditorem exhibere debere». I compilatori hanno mutato l'originario caso di vendita ordinaria in un caso di vendita a misura. Poi hanno attribuito al venditore la responsabilità per custodia nel senso che esso sia libero solo dinnanzi alla forza maggiore e al danno fatale. Tale custodia è quella che si ritrova a volta a volta accennata nei digesti e ch'è opera appunto dei

giustinianei. Essa aggrava la responsabilità normale elevandola al di là della colpa.

La spinta a tali modificazioni deve essere stata data dal desiderio di collegare il testo di Gaio a tutto il discorso precedente; la menzione poi di custodia, trovantesi nell' originario dettato di esso, deve aver facilitato l'adattamento del testo ad esprimere le nuove idee dei compilatori, circa quella responsabilità, nella compravendita a misura.

È strano che a questa interpretazione del testo giustinianeo si siano opposti gli scrittori (quelli che negano l'esistenza di un tipo particolare di custodia), osservando che da siffatta interpretazione deriverebbe l'ingiusta e illogica conseguenza di aggravare nella vendita a misura, e prima che il negozio sia perfetto, quella responsabilità che nella vendita ordinaria è contenuta nei limiti della colpa lieve (87).

L'equivoco è evidente: nella vendita a misura

(87) Cosi anche BRUCKNER, op. cit., pag. 251: « Invano ci siamo qui rivolti alla ratio legis per giustificare come mai il venditore a misura numero e peso, prima della misurazione, quando cioè la compravendita non è ancora perfetta, dovrebbe rispondere più rigorosamente che non il venditore comune, il quale, dal momento della perfezione, non sopporta più alcun pericolo. La cosa darebbe inoltre luogo a delle strane conseguenze; come quando, ad esempio, il compratore, dopo misurata la merce, dopo cioè la perfezione del negozio, lasciasse la merce stessa presso il venditore. Allora il venditore non dovrebbe rispondere per nulla più che il venditore di una cosa fin da principio individualmente determinata, e perciò la sua responsabilità verrebbe, dopo il compimento del contratto, ad essere minore di quella che a lui incombeva quando il contratto era ancora imperfetto ».

dovrebbe, e doveva secondo i principi classici, gravare sul venditore sino alla misura « omne peri

culum ».

Attribuendo a lui la custodia, che porta la conseguenza d'esonerarlo dalla vis magna e dal danno fatale, si viene a ciò: che una parte di quel pericolo è tolta a lui e addossata al compratore. La posizione del venditore viene cioè in fatto ad essere migliorata, contrariamente all'osservazione dei ricordati scrittori, tratti certamente in inganno dal valore che avrebbero, prese a sè, le espressioni che si incontrano

nel testo.

I compilatori, non vincolati qui dal rigoroso principio del passaggio del pericolo appena perfetta la vendita, e considerando alla stregua di un nuovo spirito d'equità la reciproca posizione creata alle parti dall' obbligo di addivenire alla misura, ripartiscono le conseguenze del perimento casuale della cosa fra venditore e compratore. E sul compratore anche prima della misura fanno ricadere quegli avvenimenti che portano la distruzione della cosa, ma che la comune coscienza degli uomini giudica che non avrebbero risparmiato l'oggetto, se questo fosse già stato di fatto « in bonis» del compratore.

d) fr. 3. D. 18. 6. Paulus libro quinto ad Sabinum: « Custodiam autem venditor talem praestare debet, quam praestant hi quibus res commodata est, ut diligentiam praestet exactiorem, quam in suis rebus adhiberet. »

Questo testo è stato da alcuni scrittori riferito alla compravendita ordinaria; da altri, tenendo conto

della connessione che non può mancare fra i vari frammenti d'un medesimo titolo, è stato riferito alla compravendita « ad mensuram » (88).

Di chi la ragione?

Tutto dipende, a mio avviso, dal significato che possa darsi alla frase finale: « ut diligentiam praestet exactiorem, quam in suis rebus adhiberet ». Indica essa una responsabilità che oltrepassa quella normale, commisurata sulla diligenza del « bonus paterfamilias »?

Secondochè la risposta sia affermativa o negativa, potrà dirsi che il testo si riferisca o non si riferisca alla compravendita ordinaria.

Ma poichè la conclusione, alla quale si dovrebbe giungere in tal modo, avrebbe valore tanto per il diritto giustinianeo quanto per il diritto classico, non sarà inopportuno indagar prima se il testo, quale è riferito nei digesti, corrisponda effettivamente al primitivo dettato di Paolo. Può affermarsi che esso appartenga per intero al grande giurista, compresa la frase ut diligentiam praestet exactiorem, quam in suis rebus adhiberet », esplicativa della custodia che deve prestare il venditore, e che già era stato dichiarato dovesse richiedersi uguale a quella che presta il commodatario? Il termine di paragone « exactiorem quam in suis rebus », riferito alla diligenza, corrisponde alla fraseologia dei classici ed ha nella vasta

(88) Fra i primi BARON, op. cit., nell' Arch. für Civ. Prax. vol. 78 pag. 273; fra gli altri HASSE, op. cit, pag. 455; PERNICE, op. cit., vol. II pag. 358; BRUCKNER, op. cit. pag. 251 n. 1.

materia dei digesti altri esempi che lo confortino e giustifichino?

Poichè non è qui il caso di fare una trattazione ex professo della « diligentia quam suis » e correlativamente della « culpa in concreto » (89), per quanto tale trattazione potrebbe condurre a notevoli e nuovi risultati, passo senz'altro al successivo esame dei testi che all' argomento si riferiscono. Si vedrà alla stregua di essi se la menzione della diligentia quam suis, contenuta anche nella legge in discussione, sia da ritenersi, come fin oggi si è fatto, superiore ad ogni dubbio di non classicità.

a) fr. 24. 5. D. 24. 3. Ulpianus libro trigesimo tertio ad edictum : « Si maritus saevus in servos dotales fuit, videndum, an de hoc possit conveniri. et si quidem tantum in servos uxoris saevus fuit, constat eum teneri hoc nomine: si vero et in suos est natura talis, adhuc dicendum est immoderatam eius saevitiam hoc iudicio coercendam: quamvis enim diligentiam uxor eam demum ab eo exigat, quam rebus suis exiget, nec plus possit, attamen saevitia, quae in propriis culpanda est, in alienis coercenda est hoc est in dotalibus » (90).

(89) Anche di quest' argomento la trattazione più completa si trova sempre nel classico libro di HASSE, già cit., pag. 183-258 e 318-370; una chiara esposizione fa pure SCIALOIA nel Diritto delle Obbligazioni (lezioni citate) pag. 392-400. Come rileverà il lettore dalla rapida esegesi dei fr. riguardanti l'argomento, che vado facendo nel testo, l'ipotesi che la diligentia quam suis, sopra la quale si è creato il concetto della culpa in concreto, sia giustinianea, è del tutto nuova.

«

(90) hoc est in dotalibus,» è glossema secondo LENEL, Palingenesia n. 958; cfr. anche EISELE, Zeit, der Sar. Stift. für Rechtsg. vol. 13, pag. 140.

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