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ciascuno dei due il terzo per conclusione in questo modo: Tam gratum (passerem) mihi, quod i. e. quia zonam soluit diu ligatam; quam ferunt fuisse puellae (Atalantae) pernici malum, quod i. e. eo quod zonam soluit diu ligatam; non acquistano essi questi due Epigrammi uno spirito, una vivacità particolare, di cui mancherebbero diversamente? Se il semplice e ingenuo può leggerli per intero e gustarli, senza manco il sospetto di lubricità; e il maliziosetto può goderli più belli e più salsi e ammirabili, perchè appunto leggibili in doppio senso; cioè in semplice e piano, o in una elegante e lubrichetta significanza: perchè levare a questi due Carmi il grande merito di tanto acume, di tanta grazia e venustà, per un rispetto alla pudicizia di Catullo? Marziale, che visse non molto tempo dopo di lui, non fu così tenero della verecondia del medesimo; ed in più luoghi diede a vedere che cosa pensasse di quel passero: specialmente poi nell' Epig. 6 del Lib. XI ove così scrive:

Da nunc mi basia, sed Catulliana:

Quae, si tot fuerint, quot ille dixit,
Donabo tibi passerem Catulli.

e vedi pure il Lib. I, Epig. 110; il Lib. IV, Epig. 14; e il Lib. VII, Epig. 14. Rideva adunque a torto il Sanazzaro del Poliziano con un pungente Epigramma su questo argomento: a torto pure il Signor Collet chiama oggi, senza buon senso, questa opinione di ragguardevoli Commentatori.

CARME III.

V. 6...

suamque norat Ipsam tam bene, quam puella matrem:

Suam Ipsam usato alla Greca è termine di sommessione, di affetto insieme, ed è modo anche della nostra lingua di Romagna, la quale tanti ne ha rimasti dal Greco, forse

fino dal tempo che gli Esarchi dominarono Ravenna, non che della Italiana. Oggi pure i nostri del Contado per significare la Reggitrice, la Sposa, o la Promessa Sposa, e viceversa, diconsi rispettivamente: la mia Costei, il mio Costui e quelli del ceto superiore, la mia Signora, il mio Signore, cioè il dominatore, il padrone di me e del cuor mio. Vedi usato in questo senso l'Ipsius at sedes ecc. del Carm. LXIV, v. 43; e l'ipse senex del Carme LXVII, v. 4: vedi Orazio Lib. II, Sat. 8, v. 23.

CARME IV.

V. 12. Loquente saepe sibilum edidit coma.

Loquente coma è detto qui da Catullo pensando forse alla Greca parola Xxλéo, che significa tanto sonum edere, quanto loqui, garrire: da questo doppio significato del greco vocabolo egli probabilmente formò la maniera di dire elegantissima del loquente coma sibilum edidit. Virgilio pure disse Egl. VIII, v. 22:

Maenalus argutumque nemus, pinosque loquentes
Semper habet:

maniera che tolse ad imitare forse Petronio Arbitro allora che disse cap. 120, v. 73:

Mollia discordi strepitu virgulta loquuntur.

Eubolo, Greco Scrittore di Commedie, adoperò invece nel senso di loqui o garrire la voce laλéw, per esprimer il soffriggere della padella, in questi versi

cioè a dire

Λοπας παφλάζει βαρβάρω λαληματι
Πησωσι δ' ιχθυς εν μέσοισι τήγανοις

Patella fervet barbara loquacitate,
Saliunt porro pisces in mediis patellis.

CARME VI.

V. 7. Nequidquam tacitum cubile clamat.

L'ill. Doering ed il Naudet istesso così si accordano a spiegare questo verso: Quamvis tu taces, frustra tamen tacet cubile; immo clamat et ad solem profert nequitiam tuam. A me non pare che la volontà dell'Autore sia stata quella di esprimere tamen tacet frustra cubile, immo clamat etc.: ma bensì questa: Si tu taces, tamen cubile nequidquam tacitum est, cioè a dire frustra cubile est quoad te mutum et nulla voce praeditum; namque te invito revera clamat quodammodo odoribus in ipso sparsis, et echo argutationis (crepitationis) ejus, inambulatione, et pulvini tritura etc.

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audiam te

Si spiega così questo passo dagl' Interpreti narrantem loca, facta Hiberorum etc. Io amo assai meglio leggere, incontrandomi coll' ill. Naudet: audiam te simulantem Hiberum; vel, in te Hiberum ipsum; narrantem facta, loca etc., ut mos est tuus. Il concetto si fa per me assai più gajo e grazioso: ed oggi pure al ritorno di una persona dimorata a lungo in altra contrada, in Francia per esempio o in Inghilterra; si dice, per fare a quest'uomo un complimento gentile; ch'egli è tornato un vero Parigino, od un vero Inglese. Orazio ha una maniera eguale Lib. I, Sat. I, v. 101 ove dice:

Quid mi igitur suades? ut vivam Nevius, aut sic
Ut Nomentanus..... Vedi pure Lib. I, Sat. 3, v. 12.

CARME X.

V. 33. Sed tu insulsa male et molesta vivis.

Non intenderei, come si è fatto, a modo dell' Heinsio nelle sue note a Catullo, male vivis, et molesta, ma bensì; sed tu vivis male insulsa, et molesta, i. e. maligne et malefice insulsa es, et molesta, (fai a malizia la semplice, e sei pericolosa) et ideo tecum non licet esse negligentem. Orazio ha Lib. I, Sat. IX, v. 66: Male salsus, ridens, dissimulare. Vedi anche Catullo istesso Carm. V,

CARME XIII.

V. 10. Seu quid suavius elegantiusve est;

v. 12.

Non come vuole il Doering: accipies meros amores, et quod magis arride at et declaret meam elegantiam, unguentum scilicet etc., ma sembra si abbia ad intendere con più di sale: accipies meros amores, seu quod suavissimum et elegantissimum in orbe est: Unguentum scilicet quod donarunt meae puellae etc.

CARME XIV.

V. 1, 4. Si qui forte mearum ineptiarum
Lectores eritis etc.

Appunto come lo ha opinato l'ill. Naudet, questi quattro versi parevano a me pure convenire alla fine del Carme XIV, meglio che del XVI ove li hanno posti certuni: giacchè l'Autore, dopo di avere gridato contro ai pessimi Poeti, ad essi rivolgesi adirato pel male ricevutone; e con violenza respinge da' suoi versi le mani loro, minacciandoli se audaci non l'obbedissero.

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Così leggeva lo Scaligero, seguito poi successivamente da quasi tutti. Il Vossio riprovò questa lezione per rispetto al Metro, e propose quest' altra assulis stantis che sembra la vera. Però è da scrivere, qual era forse realmente ne' Codici, assuli' stantis con un' Aferesi, per comodo della pronunzia, secondo l'uso antico, e per meglio dell'armonia. Catullo istesso ha pure Carm. CXVI, v. 8 — at fixus nostris (telis) tu, dabi' supplicium. Secondo Festo assula chiamasi la scheggia che la mannaja distacca in un colpo: quindi l'Autore qui volle esprimere, che il ponte omai stava non più sopra pali, sublicis; ma su di vere schiappe o scheggie, assulis: inepta crura.

V. 18. velut alnus in fossa Liguri jacet suppernata è accennato un tale Alno che giaceva reciso in quel mentre nella fossa di Ligurio, facendone un paragone col suo inerte municipe.

CARME XX.

V. 14, 15. Tenerque, matre mugiente, vaccula
Deum profundit ante templa sanguinem.

Quante variate lezioni sonosi mai prodotte su questo passo, quante interpretazioni, e quanto non si è disputato fra gli Eruditi! Alcuni in luogo di Tenerque hanno proposto la lezione Teneraque e fra questi il Vossio, che ha stimato a proposito di conservarla a preferenza di ogni altra ne' suoi Commenti. Il Mureto al contrario l'ha combattuta per non mancare alla ragione del Metro, e sostiene la lezione Tenerque in genere femminino. Il Doering accede, è vero, a questa lezione come si vede, ma a mal

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