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che forse intendesse (opinor sentit) quel solvet per moriar: quindi è che a lui rispose Penteo, illudendosi : La Morte è fine di tutte cose, (Mors ultima linea rerum); ovverosia : E così sarà finita.

EPISTOLA XVII.

Secondo che narra Diogene Laerzio Lib. II. cap. 68. Diogene Cinico, vedendo passare Aristippo mentre egli stava lavando erbucci da mangiare, gli disse arrabbiato: » Se tu sapessi cucinarti di questi, non avresti a strisciarti per le reggie de' Tiranni. » E tu, rispose Aristippo, se sapessi trattare cogli uomini, non ti staresti a lavare gli erbucci. È a questo aneddoto che riferiscono i Chiosatori i versi 16-22. seguenti, così scrivendo, ed interpretandoli :

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vel, iunior, audi

Cur sit Aristippi potior sententia; namque
Mordacem Cynicum sic eludebat, ut aiunt :
Scurror ego ipse mihi, populo tu: rectius hoc et
Splendidius multo est. Equus ut me portet, alat rex,
Officium facio: tu poscis vilia rerum

Dante minor, quamvis fers te nullius egentem.

Vale a dire : Io colle mie arti cortigiane mi studio di piacere ai potenti per mio profitto; tu colle tue baje filosofiche studi di piacere al volgo: questo studio (hoc) è molto più ragionevole e splendido. Poi riguardo all'equus ut me portet etc. aggiungono essere questo un Proverbio greco, nato dal detto di un giovine; il quale pregato che si licenziasse dalla milizia, rispose: » Che un cavallo mi porti, ed un re mi faccia le spese: " volendo egli dire, che stava bene in quel modo, nè poteva star meglio. E dopo seguono spiegando: officium facio cioè officiosum me praebeo, ossia ai grandi presto cortese ufficio: dante minor; cioè, più vile di chi ti dà: quamvis fers te etc.

cioè; sebbene ligio sempre a chi ti allarga la mano, accetti e dici; nulla mi manca. Il celebre castigatore Giacomo Cruquio così invece interpunge i versi 18-20.

Scurror ego ipse mihi, populo tu; rectius hoc et
Splendidius multo est; equus ut me portet, alat rex.
Officium facio; tu poscis vilia rerum etc.

Spiegando in questa guisa :

Sta molto meglio per me che io abbia il cavallo, ed il re lo mantenga. Io mi presto officioso; e tu accatti ardito miserie, sebbene ti faccia di nulla bisognoso. In quanto a me, trovo più consentaneo al resto e più regolare l'interpungere e spiegare come segue:

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Scurror ego ipse mihi, populo tu. Rectius học, et
Splendidius multo est: equus ut me portet, alat rex,
Officium facio; tu poscis vilia rerum

Dante minor; quamvis fers te nullius egentem.

Che val quanto dire: Io colle mie arti e facezie servo di riso ai potenti, per mio vantaggio; tu colle tue filosofiche buaggini ti fai ridevole al popolo, con tuo disdoro. Questo mio fare (hoc), è molto più giusto e dicevole: io mi studio officioso (officium facio) perchè il cavallo mi porti, e il re lo nutra (riferendosi al proverbio testè citato), ossia mi adopero per viver bene; mentre tu accatti le altrui miserie e briciole (poscis vilia rerum) curvato ed umile dinnanzi al donatore (dante minor); sebbene ti spacci e mostri (te fers) di nessuno bisognoso.

EPISTOLA XVIII.

V. 12. Sic iterat voces, et verba cadentia tollit,
Ut puerum saevo credas dictata magistro

Reddere, vel partes mimum tractare secundas.

cioè; sic iterat voces, così ribatte le parole del padrone, come il discepolo quelle della sua lezione al cospetto del

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suggerente maestro. Et verba cadentia tollit e qui mi pare di vedere quel modo di fare la secondina, consistente appunto nel pendere dalla bocca di colui che parla, tutto fiso e compreso; assecondando lievemente, a bocca semiaperta, i moti del viso e delle labbra di lui, e ripetendo insieme ed in cadenza le ultime sillabe delle parole di riposo, in segno di perfetto assenso e di adulazione.

EPISTOLA XIX.

V. 26. Ac ne me foliis ideo brevioribus ornes,

Quod timui mutare modos, et carminis artem.

Il ch. Doering dice: Foliis (lauri) brevioribus, mox facescentibus; corolla igitur non diu durans, pro exiguo poetae praemio ponitur Io non credo questa la mente dell' Autore, il quale avrebbe usata una maniera troppo vaga per esprimere un tale concetto. A me pare invece che col brevioribus foliis abbia inteso di accennare alla Corona di Edera, doctarum praemia frontium, la quale egli tiene per lui non conveniente; ma bensì quella di lunghe foglie, cioè di Alloro, premio stabilito per laurea ai veri Poeti, come ai Trionfatori: locchè chiaro esprime Lib. III. Ód. 30. v. 16. Vedi la Nota al Lib. I. Od. I. v. 29.

LIBRO SECONDO

EPISTOLA I.

V. 6. Post ingentia facta Deorum in templa recepti.

Il ch. Schmid segue questa lezione, la quale è la comune a quasi tutti i Chiosatori Antichi e Moderni. Lo Strocchi così parla ne' citati Disccrsi Accademici (Ravenna 1822) Nella Epistola ad Augusto il cortigiano Poeta innalza il suo munifico Principe sovra tutti gli eroi che furono e saranno, dicendo » Romolo Bacco e gli altri Eroi divennero

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consorti degli Dei dopo la morte. A te vivo e veggente fumano gli altari. » La lezione post ingentia facta (dopo alte imprese) è pleonasmo: l'altra che piacque al Bentlejo post ingentia fata (dopo la morte, detta fatum ingens), è il perno di tutto il ragionamento. Io pure stimo la migliore la lezione del Bentlejo, che sì bene convalida con opportunissimi esempi tratti particolarmente da Luciano, Marziale, Claudiano etc.

V. 79. Recte nec ne crocum floresque perambulet Attae Fabula si dubitem, clamant periisse pudorem

Cuncti paene patres;

Si spiega dicendo, che nel tempo di recitare si spargeva la Scena di fiori di Croco, e di Acque Nanfe, e che questi versi a ciò alludono. Ma questi fiori, perchè verdi, certamente sdruccioli, non riescivano essi pericolosi agli Attori? Io penso che Orazio alluse piuttosto ai tapeti ed arazzi tessuti a fiori, (textiles picturae di Lucrezio Lib. II. v. 35.) distesi sul tavolato della scena; o semplicemente su quello dipinti mentre dice Ovidio de Art. Am. v. 104. » Tum non marmoreo pendebant vela theatro, Neu fuerant liquido pulpita rubra croco. » Cioè a dire: picta od illita.

EPISTOLA II.

V. 7. Literulis Graecis imbutus, idoneus arti
Cuilibet: argilla quidvis imitaberis uda.

Quin etiam canet indoctum, sed dulce bibenti.

Discordano le opinioni sulla interpretazione e la lezione del v. 8. Molti leggono come fa qui lo Schmid, imitaberis, altri e parecchi, imitabitur. I primi riferendolo all' indole del servo spiegano : -argilla (ut ille est uda) imitaberis quidvis cioè pari ad umida argilla potrai foggiarlo a tuo talento, e citano in proposito il cereus in vitium flecti come pure l' udum et molle lutum es; nung

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nunc properandus etc. quello di Orazio, questo di Persio. I secondi dicono ille (cum) argilla uda imitabitur quidois spiegando che il Venditore lo raccomanda, numerando prima le doti dell' animo, poscia quelle del cuore e dell' intelletto. Considerando però che il pensiere dei primi si trova in qualche maniera implicato nel: »verna ministeriis ad nutus aptus heriles » del v. 6: e che l'ada argilla non può essere che un ablativo per cagione del metro; io sto per la lezione imitabitur. Seguendo l'altra mi pare non si possa costruire altramente che ex illo facto de argilla uda cum illa argilla uda imitaberis cosa che rende la sintassi contorta, nè sembra troppo elegante. Tenendo la seconda, oltre che la costruzione riesce regolarissima, il Venditore viene a dire assai di più in favore del suo commendato: anzi tanto, che ne' vv. 10. e 11. teme di non essere creduto, per troppa lode.

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ovvero

V. 57. Tendunt extorquere poemata: quid faciam vis, Denique non omnes eadem mirantur amantque ; Credo si debba apporre al quid faciam vis un punto interrogativo, dicendo: Se gli anni mi tolsero quasi tutto; che vuoi che io faccia?

V. 157. Viveret in terris te siquis avarior uno.

e questo verso pure vuol essere chiuso da un punto interrogativo.

V. 59.

LIBRO TERZO

EPISTOLA AI PISONI

Licuit semperque licebit,

Signatum praesente nota, producere nomen.

Questa è la lezione generalmente seguita dal massimo numero de' Chiosatori, da Acrone fino ad oggidì. Sembra

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