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perchè non sia qui confuso dal vino: ond'è che Orazio medesimo lo dice - inverecundus deus fervidiore mero Epod. Od. 11, v. 13. Peraltro intendendo per Bacchum un Baccanale, una Compotatio; la quale può essere modica, e perciò verecunda, oppure immodica e quindi inverecunda; il sentimento riescirà molto migliore.

V. 9.

Vultis, severi, me quoque sumere
Partem falerni?

I più Antichi Interpreti ed alcuni de' recenti leggono Falerni severi i. e. austeri: ma questo aggiunto, unico forse dato al Falerno, quadra assai meglio col

me severi i. e. instantes

-

vos in

V. 19.

Ah miser;

Quanta laborabas Charybdi,

Digne puer meliore flamma!

Questa lezione prescelta dallo Schmid, è di altri ancora: credo a torto però. Eccitato il giovine a palesare la sua fiamma, egli lo fa dicendo le presenti sue pene. Orazio quindi ripiglia:

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facendo un giuoco di parole fra Cariddi la seduttrice, e la pericolosa Cariddi del Mare Siciliano. Che poi s'abbia a leggere laboras in posto di laborabas lo dicono le espres sioni in tempo presente quis deus poterit te solvere che seguono.

ed il vix expediet Pegasus

ODE XXVIII.

Il ch. Schmid non ammette che in questo Carme sia un dialogo fra un nocchiero e l'ombra di Archita: ma vuole invece che sia un colloquio fra il Corpo insepolto di Archita, e l'Anima sua; che, secondo l'antica credenza, gli

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volava intorno, attendendo la sepoltura, per passare allo Stige. Ammessa questa opinione; come si spiega tutta l'allocuzione rivolta al navigante vv. 23-34, prima con preghiere poi con minaccia di tristi augurj, affinchè non sia avaro di un pugno di polvere? Come può dire il Corpo all' Anima coi versi citati - At tu nauta, vagae ne parce malignus arenae.... Particulam dare etc? indi fargli una minaccia perchè negligit i. e. non curat fraudem committere? poi finire dicendo vv. 35, 36 — Quamquam festinas, non est mora longa, licebit Injecto ter pulvere, curras? Queste parole sono rivolte ad uno presente: sepolcro non vi è, per supporle scolpite in un sasso: dunque non si può a meno di ammettere il dialogo fra Archita ed un Nocchiero colà capitato, e sarà questo: Un Nocchiero capitato avanti al Corpo di Archita insepolto, fa delle considerazioni, sopra gli spazj immensi percorsi ne' Cieli dalla mente Astronoma di lui, e la pochissima sabbia che morendo restava da circuirlo sul Lido Matino vv. 1-6: e lo spirito di Archita risponde a lui, dicendogli i grandi Uomini già morti essi pure prima di lui, e quantunque ammessi alla consuetudine degli Dei, vv. 7-22. Infine lo prega a dargli sepoltura, onde possa l'Anima varcare in pace lo Stige, e gli fa in compenso i più felici augurj marittimi, vv. 23-29. Indi prosegue a minacciarlo de' più gravi infortunj, se mai trascuri questo atto pio vv. 30-34. Finalmente conclude con questa esortazione Se anche hai fretta, gettami un po' di polvere e fuggi - vv. 35-36.

V. 21. Me quoque devexi rapidus comes Orionis, Illyricis Notus obruit undis.

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Tutti quanti i Chiosatori costruiscono e spiegano come segue, dietro ad Acrone Notus, rapidus comes Orionis devexi; (i. e. declinati, defluxi), obruit me quoque Illyricis undis. A me sembra inesatta la frase, Notus comes 0rionis devexi cioè: il Noto in compagnia di Orione che non c'è più; e direi anche poco proprio quel devexi per

tramontato: e però così interpungerei, e diversamente intenderei questo distico:

Me quoque devexi: rapidus, comes Orionis,
Illyricis Notus obruit undis.

Avendo detto superiormente nei vv. 15-18: che nessuno sfugge alla morte, e toccati diversi modi di morire: dice vv. 19-20 Mixta senum ac juvenum densentur funera; nullum Saeva, caput, Proserpina fugit; -ora egli aggiunge

me quoque (inter alios perchè non immortale), devezi (ad eam): cioè; pervenni all' Orco, alle Plutonie sedi. Poscia indica il modo ed il luogo di sua morte, dicendo-rapidus Notus, comes Orionis, obruit me Illyricis undis -. In questo modo mi pare si risponda meglio alla considerazione prima del marinajo alquanto irrisoria; e si venga a dire di più, e con più proprietà di lingua, che nel modo comune: quindi è che io crederei questa la mente vera di Orazio.

V. 17.

ODE XXXI.

Frui paratis et valido mihi,
Latoë, dones et, precor, integra

Cum mente nec turpem senectam

Degere nec cithara carentem.

Puntata come si vede questa strofa, non riesce molto facilmente intelligibile. Così si distingua, migliorando l'e spressione:

Frui paratis, et valido, mihi
Latoë dones: et precor integra

Cum mente, nec turpem senectam
Degere, nec cithara carentem.

cioè: Latoe dones mihi, et valido, frui paratis: e non già, come si dice: Latoe precor dones mihi valido frui paratis.

V. 21.

ODE XXXV.

Te spes et albo rara fides colit
Velata panno, nec comitem abnegat,
Utcumque mutata potentes

Veste domos inimica linquis.

Si approva da taluni, da tali altri no, Orazio in questo passo; dicendo che egli confonde la Fede Dea, colla Fede Umana. Il ch. Dillenburger così si esprime quam duplicem quasi quamdam imaginem Deae Fortunae, et Fortunae Humanae, nisi admittis, dificillimus locus intelligi nequit. Il Peerlkamp chiariss." scrive - Fides ut Spes, hic sunt Deae comites Fortunae. Dea Fides, rara appellari non potest quia una modo est Dea. Mitscherlikius quoque duplicem Deae et Virtutis confusam imaginem reprehendit. Mallem cana Fides, ut Virgil. Aen. Lib. I, v. 292 —. Circa poi al v. 22 egli opina doversi scrivere non nec, ma sed comitem abnegat, spiegando: Te, o Fortuna, Spes et Fides colunt, quando hominibus laeto vultu arrides, eosque facis claros et potentes. Sed quum eosdem homines relinquis, Spes et Fides te non comitantur, sed apud infelices manent. Vulgus, et meretrix, et falsi amici tecum, abeunt. Hanc emendationem sana ratio, et similes veterum, in hac re, sententiae commendant. Così il Peerlkampo: ma qui pure si va fuori del vero, ponendo in genere che la Speranza e la Fede seguano liete la buona Fortuna; abbandonandola poi e seguitando la Sventura, quando essa volga al fortunato le spalle. Gli esempj che dagli Antichi egli cita, guardano ad eccezioni, anzi che a questa sentenza. Per me trovo bene spiegabile il passo com'è: e l'abbaglio preso sta in questo; che si tiene seguace della Dea Fortuna, la Dea Fede colla Dea Speranza: quando Orazio parla della Dea Rara Fides, cioè la Fides Amicitiae; la quale, sì che è vero, segue sempre la persona e non la Ventura. Essa veniva distinta dall' altra presso gli Antichi,

effigiandola in aspetto di Donna Provetta, vestita con semplicità, coperta il capo di un bianco panno (albo velata panno); ed un altro eguale ne tiene nella sinistra mano, e lo va distendendo sull'altare della Dea Fedeltà. Ammessa questa osservazione, ecco ciò che il Poeta viene a dire in questo luogo Te, o Fortuna, cole la Speranza e la Rara Fede (cioè la Fede di Amicizia); e comunque, mutando faccia e veste, tu abbandoni avversa la Casa del Potente; essa non lascia la sua compagna (la Speranza) o veramente non respinge da sè il Fedele Compagno di lui (non abnegat comitem), che fido lo segue. Interpretando così, non mi pare vi sia confusione di idee veruna fra la Deità Celeste e l'Umana: la cosa è naturale, e la strofa che segue consuona assai bene col suesposto concetto. Si dovrà scrivere dunque:

Te Spes et albo, Rara Fides colit,
Velata panno; nec comitem etc.

V. 1.

LIBRO SECONDO

ODE II.

Nullus argento color est avaris
Abdito terris, inimice lamnae
Crispe Sallusti, nisi temperato
Splendeat usu.

Gli Espositori Antichi spiegano poco chiaramente la presente strofa: e facendo lunghe parole ed osservazioni su di ogni voce, conclusero in questo sentimento: - Nullus color est argento abdito terris avaris, vel, abdito ab avaris in terris, Crispe Sallusti, inimice lamnae, seu laminae sepultae, argenti vel auri, nisi splendeat usu temperato -. Questa interpretazione riescì erronea pel Lambino chiariss." poichè faceva dire ad Orazio, che l'argento sepolto non ha importanza, quando non isplenda per uso temperato etc.

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