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L'EDITTO PUBLICIANO

1. Propongo una nuova soluzione del vecchio quesito sulla restituzione di questo editto, coll'idea che sia la soluzione definitiva e colla speranza che per tale debba essere riconosciuta. Lo dico, perchè senza questa fede non mi riterrei autorizzato ad intrattenere il lettore di un argomento così oramai trito. D'ipotesi ne abbiamo abbastanza. A sperar ciò m'induce non solo la bontà degli argomenti, che della mia proposta stanno in favore, ma anche il fatto che gli studi precedenti la rendono, a quanto parmi, matura. I quali studi ho cercato di considerare attentamente; tuttavia nell'esposizione successiva credo di dovermi attenere al metodo della esposizione diretta degli argomenti, che suffragano la mia tesi. In tanto terrò conto delle asserzioni altrui, in quanto riescano contrarie a qualche mia argomentazione. Tutte le altre o asserzioni o ipotesi o congetture cadranno di per sè, se riuscirò nella mia dimostrazione. Se non riuscirò, avrò risparmiato almeno al lettore la noia di leggere una critica negativa, che può fare facilmente di per sè.

2. L'editto publiciano giulianeo era il seguente:

Si quis id quod bona fide emit (o emerit, o emisse dicetur) nondum usucaptum petet iudicium dabo.

La formula inserita nell'editto era quella di Gaio IV, 36. « Iudex esto. si quem hominem A. Agerius emit et is ei traditus est, anno possedisset, tum si eum hominem de quo agitur ex iure quiritium eius esse oporteret, etc. »

3. Anzitutto affermo così l'unità dell'editto e della formula. E noto quali fatti stanno a favore di questa unità. Il Digesto non reca che un solo editto. In nessun luogo delle nostre fonti si trova una frase sola, che accenni a due editti o ad un editto con due clausole, che torna lo stesso. In particolare si parla sempre nelle fonti di una publiciana actio, mai di publicianae actiones. Gaio IV, 36, non reca che una formula e in generale scrivendo: « datur autem haec actio ei qui ex iusta causa traditam sibi rem nondum usucepit, eamque amissa possessione petit », mostra d'intendere che esistesse una sola azione corrispondente di necessità ad un unico editto. Questi fatti hanno il pregio di avere un significato per sè; ognuno è obbligato a ritenerli come argomenti per l'esistenza di un solo editto e di una sola formula.

Niente di simile si può addurre per l'esistenza di un doppio editto e di una doppia formula. Effettivamente l'asserita impossibilità che fossero compresi in un unico editto i due casi diversi della proprietà bonitaria e della possessio b. f., dopo gli studi del Bring, dell'Appleton, dell'Ermann appare un fatto per lo meno contestabile. E quanto a quelle o scorrezioni, o anomalie, o enigmi che sono l'« id quod traditur », l'« ex iusta causa petet », l'« a non domino », il« Praetor ait: qui bona fide emit », nessuno osa sostenere che questi fenomeni abbiano un significato proprio a favore dell'idea di un doppio editto e di una doppia formula. Essi sono degli enigmi, di cui si credette di trovare la soluzione in codesta idea e non più; di per sè essi non ci guidano verso l'editto e la formula unica, nè verso l'editto e la formula doppia. Una necessità logica di concludere da essi nell'un senso o nell'altro non esiste. Quei primi fatti, che stanno per l'unicità dell'editto e della formula, conservano adunque tutto il loro valore. Il che vuol dire che noi dobbiamo partire dal presupposto di codesta unicità, salvo ad abbandonare quest'idea solo quando incontrassimo dei fatti indubbiamente inconciliabili con

essa.

NOV1 8 1920

4. Volgiamoci al contenuto dell'editto giulianeo e cominciamo dalla formula dell'editto. Io vengo ad asserire e quindi devo dimostrare che nell'editto giustinianeo citato nella 1. 1 pr. 1 « Ait praetor: si quis id quod traditur ex iusta causa non a domino et nondum usucaptum petet, iudicium dabo » è tutta interpolata la prima parte dell'editto « si quis id quod traditur ex iusta causa et non a domino» e che al suo posto stava scritto « si quis id quod bona fide emit ». Il che torna a dire che l'editto non parlava di tradizione, nè della iusta causa della tradizione, nè dell'acquisto a non domino; ma nominava soltanto la compera con buona fede.

5. Premetto a questa dimostrazione un'avvertenza di massima, necessaria a toglier valore a prossime obbiezioni, che contro la mia formula si presentassero sin d'ora al lettore. Questi potrebbe subito notare che, onde la mia formula stia, bisogna supporre che sia una falsificazione non solo l'editto giustinianeo citato, ma anche una frase staccata dell'editto, che l'imperatore stesso cita e precisamente la frase « ex iusta causa petet» (1. 3, § 1). Bisogna anche supporre che l'imperatore c'inganni quando scrive « sed cur traditionis dumtaxat et usucapionis fecit (scil. Praetor) mentionem >> (1. 1, § 2). Ebbene, rispondo, in generale (le eccezioni non mancano) gli scrittori sul nostro tema sono veramente partiti dal preconcetto, che se è interpolato l'editto, non possano essere interpolate le frasi staccate dell'editto sparse nel nostro titolo. Anzi si giovarono di queste frasi per ricostruire l'editto originario. Ma in questo fatto io trovo precisamente una delle cause, per le quali i tentativi di ricostruzione sinora fatti non sono riusciti soddisfacenti. Chi o che ci assicura che queste frasi abbiano tutte quel carattere di genuinità che non ha l'editto? I compilatori, che costruirono, come tutti ammettono, questo, togliendo o aggiungendo parole all'editto giulianeo, o perchè non possono averci fatto il brutto scherzo di conti

'Dove cito le leggi, senza indicare il titolo, è sottinteso il tit. D. 6, 2.

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