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agglomerata nei centri. Non dobbiamo quindi formarsi un concetto esagerato del numero delle persone omesse; infatti, ove le descrizioni non fossero state fatte con un'esattezza relativamente abbastanza grande i risultati delle varie descrizioni non starebbero in così buona armonia fra loro. Piuttosto si potrebbe dubitare, se nelle descrizioni, e specialmente in quelle della prima parte del secolo XVI, si sia tenuto conto sempre dei bambini lattanti. Tutto considerato, credo che non si andrebbe errati aggiungendo ai risultati dalle descrizioni il 10% (come fa il Maggiore-Perni), e in alcuni casi anche di più; ma non avendo noi per stabilire ciò nessun dato positivo, ho creduto meglio di lasciare le cifre così come stanno.

La cifre che abbiamo riportato ci mostrano la popolazione siciliana in rapido aumento (circa 0,70% all'anno) nel periodo dal 1501 al 1570, poi questo aumento diventa più lento, senza però arrestarsi completamente, di guisa che la popolazione della Sicilia nel 1681 fu maggiore che in qualunque epoca precedente. Poi segue una lievissima diminuzione che si potrebbe spiegare colla strage prodotta dal terremoto del 1693 e colla crisi economica causata dalla guerra di successione di Spagna, ma che probabilmente non dipende che da inesattezze commesse nella descrizione del 1713. Anche l'aumento durante i primi 70 anni del cinquecento sarà stato probabilmente minore di quello che risulta dalle nostre cifre, perchè le operazioni del censimento sogliono farsi con maggiore esattezza a misura che si ripetono; tuttavia non possiamo dubitare in nessun modo che questo aumento, in massima parte, sia aumento reale. Ciò è dimostrato sopratutto dall'incremento delle due città principali dell'isola, incremento che per Palermo è posto fuori di qualunque dubbio dai risultati dello stato civile, e che quindi dev'essere avvenuto anche a Messina, perchè altrimenti Messina al principio del Cinquecento avrebbe dovuto essere una città maggiore di Palermo, supposizione questa che sarebbe di un'assurdità manifesta. E quest' incremento così considerevole delle due capitali presuppone, necessariamente, un aumento analogo nel rimanente dell'isola.

Del resto, nella maggior parte delle altre regioni italiane lo sviluppo demografico durante i secoli XVI e XVII mostra la più grande analogia con quello che risulta per la Sicilia. Così in Sardegna furono numerati fuochi nel

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(la diminuzione fra il 1548 ed il 1577 è cagionata dalla peste del 1575-7). Nel Bresciano (anime):

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(la diminuzione fra il 1548 ed il 1579, e fra il 1610 e il 1658 sono una conseguenza delle epidemie degli anni 1575-7 e 1630-1).

Per le rimanenti regioni d'Italia non conosciamo le cifre della popolazione complessiva durante la prima metà del secolo XVI. Possiamo constatare però come anche qui la popolazione delle città principali avesse, in quel tempo, un incremento analogo a quello di Palermo e di Messina. Così Venezia da circa 120000 abitanti nel 1509 sali a circa 180000 nel 1563, Roma da circa 60000 nel 1526 salì a 109729 nel 1600, Milano da 100000 abitanti o poco più nel 1492 a 180216 nel 1575.

Nel seicento questo aumento si arresta quasi dovunque; l'incremento della popolazione diventa insignificante, qua e là anzi la popolazione comincia a diminuire, specialmente in qualcuna delle grandi città. Rimando, a questo proposito, ai materiali da me pubblicati in un'altra memoria ('). Si fa presto a gettar la colpa sul mal governo spagnuolo; il fenomeno tuttavia è generale e deve dipendere quindi, in massima parte almeno, da cause economiche che agivano su tutta l'Italia, Ma non è questo il luogo per entrare in tali questioni.

GIULIO BELOCH

(1) Bulletin de l'Institut international de Statistique, II, 88, p. 1 e seg.

NOTE CRITICHE E COMUNICAZIONI

L'IDEA DEL DIRITTO E DELLA GIUSTIZIA

NELLA FILOSOFIA DELL'EVOLUZIONE

I

È noto che tanto il Kant quanto lo Spencer giungono egualmente nelle loro speculazioni filosofiche, pur così dissimili ed opposte per il metodo a cui s'inspirano, all'affermazione del diritto naturale, e che entrambi ripongono il principio della giustizia nella legge di eguale libertà. Senza dubbio, come diverso è il fondamento, che i due filosofi danno a quel principio, così diverso è il senso in cui l'intendono. Ma non meno notevole è l'accordo dei due più insigni rappresentanti del razionalismo metafisico e dell'evoluzionismo sperimentale, nell' esprimere con una stessa formula il concetto dell'ordine giuridico: accordo reso più evidente dal fatto che alcune critiche ed obiezioni, già mosse al Kant, furono ripetute di poi contro lo Spencer. E ciò rende ancora più interessante un' analisi critica di questo principio della giustizia, che si riassume nella legge della eguale libertà.

Per E. Kant il fondamento del diritto sta nella ragione umana, le cui regole sono universali e immutabili: onde i diritti che la natura ha posto nell'uomo non possono essere violati; ed il principio supremo della giurisprudenza è questo: « Agisci esternamente in modo che l'uso libero della tua volontà elettiva non possa turbare la libertà di qualunque individuo, in quanto si accorda con la legge universale » (1). Così il diritto si riduce al complesso delle condizioni, per cui nella società la libertà di ciascuno non sia di ostacolo alla libertà degli altri. Kant riconosce un unico diritto innato, il diritto primordiale della libertà, diritto che può essere riconosciuto a priori dalla ragione, indipendentemente dalla legislazione esterna, e di cui gli altri diritti naturali non sono che corollari. Questa nozione del diritto, se bene

(1) KANT. Rechtslehre, p. 33.

imperfetta e incompiuta, si avvicina in modo notevole a quella che si trova nella filosofia dell'evoluzione; ma, mentre lo Spencer considera la legge di eguale libertà come la condizione essenziale per raggiungere la maggior felicità possibile nello stato sociale, E. Kant enuncia il suo principio giuridico, a cui giunge basandosi sulla ragione pura, come una condizione a priori considerata indipendentemente dall' esperienza e dai fini eudemonistici. Nella formula kantiana l'idea predominante è l'elemento negativo, cioè l'obbligo di rispettare i limiti della libertà (1); l'essenza del diritto viene a essere nella limitazione, e si trasoura l'elemento positivo di esso, cioè la libertà individuale; e, d'altro lato, mentre la giustizia si fa consistere nella coesistenza collettiva (il che segna un progresso sulla concezione eccessivamente individualistica del diritto naturale, quale si trova in Locke e Rousseau), non si spiegano le condizioni per attuarla. È da notarsi poi che, come fu più volte giustamente osservato, la nozione del diritto in Kant, partecipando di un difetto generale di tutto il suo sistema filosofico, è formale; e ciò appunto perchè non è precisato il contenuto della legge universale, e non sono determinate le condizioni per cui la libertà di ciascuno può coesistere con la libertà di tutti.

Questa insufficienza della formula kantiana della giustizia non è che una logica conseguenza dell' aver trascurato una delle premesse fondamentali della filosofia giuridica, cicè la relazione che esiste tra l'individuo e la società. In altre parole manca un'analisi del fondamento sociologico e antropologico del diritto, senza del quale è impossibile determinare il contenuto della legge giuridica e le condizioni della esistenza individuale e sociale.

L'altro errore principale della formula kantiana è quello di essere basata su un concetto falso della connessione intercedente tra la morale e il diritto, la quale costituisce un'altra premessa fondamentale della filosofia giuridica. Kant infatti esclude la giustizia dal novero dei doveri morali, ponendola invece tra i doveri legali (Rechtspflichten), cioè non la considera come una virtù, ma semplicemente come un dovere di diritto (2). Evidentemente egli fu condotto a tale conclusione dal suo arido formalismo, il quale gl'impedi di vedere che oltre a quella giustizia legale che è esternamente sanzionata dallo Stato, v'è una giustizia morale internamente sanzionata dalla coscienza. Senza dubbio il diritto determina com'egli dice un rapporto tra le libertà di due persone morali; e in questo rapporto lo Stato, garante del diritto, non può considerare lo scopo che ciascuna persona può perseguire,

(1) V. H. SPENCER. The Principles of Ethics, Vol. II, pp. 437-9.

(2) Vedasi a questo proposito il mio Saggio di uno studio sui sentimenti morali, Firenze, 1903. Pp. 69 e seg.

la materia del suo atto, ma la forma sola del rapporto di due libertà. E in questo senso si può ben definire la giustizia, come Kant la definisce : « l'insieme delle condizioni che permettono alla libertà di ciascuno di accordarsi con quella di tutti.» È la legge di eguale libertà dello Spencer. Donde risulta questo principio generale del diritto: È giusta ogni azione la cui massima permette alla libertà di ciascuno di accordarsi con quella di tutti; e questa regola fondamentale: Agisci esteriormente in tal modo che l'uso della libertà possa accordarsi con la libertà di ciascuno secondo una regola generale. È questa la giustizia che deve essere applicata dallo Stato e che può essere coattivamente imposta; ma essa è una giustizia puramente formale, che si limita a considerare le manifestazioni esterne della condotta umana, e non può quindi esaurire tutto il contenuto del nostro sentimento morale della giustizia. Infatti, come ben vide il genio giuridico di Roma, summum jus, summa injuria; e anche Kant è costretto a riconoscere che oltre a quel diritto stretto, che fa appello alla coazione, si può anche concepire un diritto largo, quello cioè nel quale la facoltà di costringere non può essere determinata da alcuna legge. Quando l'industriale, di cui parla Carlo Marx, cerca di sfruttare agli estremi limiti l'attività dell'operaio, limitandosi ad assicurargli il salario necessario ai suoi mezzi di sussistenza e appropriandosi quasi tutto il frutto del suo lavoro, egli si trova in perfetta regola con la giustizia legale, e anche la massima di Kant è osservata, perchè imprenditore e salariato hanno fatto uso della loro libertà, e, guardando all'esterno soltanto, essi hanno liberamente contrattato. Ma chi può negare che l'operaio, se bene il suo diritto in senso stretto non sia violato, pure in senso largo ha diritto a una maggiore partecipazione ai beneficii dell'impresa, e che l'imprenditore, se bene abbia compiuto il suo dovere giuridico, tuttavia ha un dovere morale a concedere quella maggiore partecipazione? E se egli compie questo dovere; allora anche la giustizia morale è soddisfatta, e il suo atto diventa un atto di virtù, e il sentimento di equità che lo inspira acquista un alto valore morale. È dunque in errore Kant quando esclude la giustizia dal novero dei doveri morali verso gli altri. Egli non ha visto che se la giustizia consiste, sotto l'aspetto negativo, nella eguale libertà di tutti i consociati, essa consiste essenzialmente, sotto l'aspetto positivo, in un rapporto proporzionale tra la condotta individuale e le conseguenze di essa; e che se il primo aspetto può soddisfare le esigenze dello Stato, il secondo è necessario per soddisfare pienamente le esigenze della coscienza morale, la quale non può essere soddisfatta se non quando vede nella giustizia l'attuazione di un principio di equivalenza, eguaglianza, o equità.

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