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delle famiglie non troviamo nelle XII tavole precise disposizioni, lo si deve senza dubbio al rispetto che la legge serbò ai diritti del padre di famiglia (v. capp. XIII. XIV). Con molti particolari sono invece regolati dalle leggi decemvirali i reati d'indole economica: il furto prima di tutto, pel quale dopo avere permessa la uccisione del ladro notturno e anche del diurno, se offrisse resistenza, esse minacciarono la pena dell'addizione in servitù al ladro manifesto, una pena pecuniaria al ladro non manifesto ed al ricettatore: l'incendio doloso, cui è minacciata la pena estrema: le incantagioni sulle altrui raccolte il pascolo o il taglio notturno di mêssi, che portava seco per i puberi la consecrazione a Cerere e la forca tutti gli altri danni infine recati dagli uomini (damnum) o dagli animali (pauperies). Non meno numerosi e non meno gravemente puniti così nelle leggi regie come nelle dodici tavole furono i delitti contro lo Stato e contro la pubblica fede. Tali furono la perduellio, il concetto generico della quale abbracciava tutte le diverse offese della pace pubblica e che portava seco la pena capitale il rifiuto a prestarsi alla operazione del censo, che fino da Servio Tullio importava la vendita in servitù: le conventicole notturne: il rifiuto a prestare la dovuta testimonianza, che procurava l'infamia: la falsa testimonianza, per la quale era minacciata la deiezione dalla rupe Tarpeia. Ai quali reati si aggiunga per ultimo quello di indebita usura, punita con la grave pena del quadruplo. Questa semplice enumerazione di reati e di pene basterà a dimostrare quanto fino dalle origini il diritto punitivo dello Stato fosse sviluppato e progredito (2).

NOTE AL CAPO VIII.

(1) Per la storia del diritto criminale presso i popoli antichi in generale si veggano specialmente Duboys, Histoire du droit criminel des peuples anciens, Paris 1845, e Thonissen, Études sur l'histoire du droit criminel des peuples anciens, Bruxelles 1869: per la storia del diritto criminale delle genti germaniche Wilda, Das Strafrect der Germanen. Lipsia 1840. Per la storia del diritto penale presso i Romani si consultino innanzi tutto Sigonio, De iudiciis, libb. 2o e 3o (iudicia publica, iudicia

populi), Invernizi, de publicis iudiciis Romanorum, Romae 1787, ristampato a Lipsia nel 1846. Rein, Das Criminalrecht der Römer von Romulus bis auf Iustinianus, Leipzig 1844. Geib, Geschichte des röm. Criminalprocesses bis zum Tode Iustinians, Leipzig 1842: e finalmente A. W. Zumpt, Das Criminalrecht der röm. Republik, Berlin 1865 segg. l'opera più estesa e completa sul periodo importantissimo della repubblica, cui fa seguito una eccellente esposizione della procedura criminale avanti alle quaestiones perpetuae (cap. XXXVII) col titolo: Der Criminalprocess der röm. Republik, Leipzig 1871. Un compendio che lascia molto a desiderare si ha in Walter, RG. § 788 segg. tradotto a parte in francese col titolo: Histoire du droit criminel chez les Romains, traduit de l'allemand par J. Picquot-Damesne, Grenoble 1863. — Sul diritto del marito di uccidere l'adultero e sul taglione v. la nota seguente. Casi di vendetta di sangue si possono leggere in Val. Max. VIII, 1, 1, 2. Gell. XII, 7. Ammian. Marcell. XXIX, 2. Cic. pro Mil. 3. Quanto al dovere degli eredi e dei parenti di mortem testatoris inultam non praetermittere v. Paull. III, 5. 2. Dig. XXIX, 5, 8, 1. Cod. VI, 35, 9: cf. Dig. XLVIII, 2, 11. 2 pr. Cod. IX, 1, 4. La necessità della espiazione religiosa in moltissimi casi è ammessa dagli antichi scrittori romani e la storia ci offre numerosi esempii di simili espiazioni per atti od omissioni che sembravano aver offeso e sdegnato gli dei. Basterà rammentare qui l'espiazione o purgazione di tutta la città dopo la esecuzione dei congiurati a favore dei Tarquinii (Dion. V, 57), dopo la violazione del tempio fatta da Pleminio (Liv. XXIX, 18-21), dopo l'incesto di alcune vestali (Tacit. ann. XVIII, 8). Ma l'espiazione si poteva riferire anche a singoli individui (v. Fest. s. v. capitalis lucus e respici aves): il singolare si è che anche nel caso di colpa (culpa, imprudentia) si riteneva necessaria una purgazione, come per omicidio colposo (caso dell'Orazio: Liv. I, 26. Dion. III, 22. Fest. s. v. sororium tigillum), per violazione dei dies fasti (Varr. 7. 7. VI, 30) ecc. V. Serv. in Verg. bucol. IV, 43: < In Numae legibus cautum est ut si quis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi agnatis eius in concione offerret arietem»: cf. in Verg. georg. III, 387. Un'altra prova della origine sacrale della pena è somministrata dalle parole supplicium e castigatio. V. Paul. s. v. supplicia veteres quaedam sacrificia a supplicando vocabant e confronta con Isidoro, V, 27: « Supplicium proprie dicitur non quo quis punitur sed qui ita damnatur, ut bona eius consecrentur et in publico redigantur. Nam supplicia dicebantur supplicamenta. Et supplicium dicitur de cuius damnatione delibatur aliquid deo: unde et supplicare. la sacratio capitis la formula sacramentale delle leggi era sacer esto: v. p. e. Fest. s. v. plorare: « in regis Romuli et Tatii legibus: Si nuPADELLE?71 Storia del Diritto romano

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rus..... sacra divis parentum estod: in Servi Tulli haec est: Si parentem puer verberit, ast olle plorassit, puer divis parentum sacer esto» e Serv. ad Aen. VI, 609: « fraus innexa clienti: ex lege XII tabularum venit, in quibus sic scriptum est: Patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto» (cf. Dion. II, 10). Oltre a questi casi la sacertà era minacciata dalle antiche leggi a chi avesse remosso i termini dei campi: v. Paul. s. v. termino. Dion. II, 74. Plin. n. h. XVIII, 2. La stessa sanzione prescrissero nell'epoca repubblicana le leges sacratae, che appunto da questo presero il loro nome: Fest. s. v. « sacratae leges sunt quibus sanctum est, qui quid adversus eas fecerit, sacer alicui deorum sit cum familia pecuniaque». Così per la legge Valeria de provocatione v. Liv. II, 8 (« sacrandoque cum bonis capite eius qui regni occupandi consilia inisset » ): per le leggi sacrate dopo la secessione plebea Liv. II, 33 (« Iovi consecratum esset (caput) bonaque eius ad aedem Cereris venum irent »), Dion. VI, 89: per una rinnovazione di queste leggi v. Liv. III, 55. Per il diritto di uccidere un uomo dichiarato sacer oltre i passi citati di Livio si possono consultare Dion. II, 10. 74. V, 19. 70. VI, 89. Cic. pro Tull. 47. Fest. s. v. sacer mons. Però non si cadeva ipso facto nello stato di sacertà: in Fest. cit. si legge: « At homo sacer is est quem populus iudicavit ob maleficium.» Era necessario adunque un giudizio popolare per costituire taluno in quello stato ex lege: e però le dodici tavole vietarono di uccidere un uomo senza una precedente condanna: Salv. de gub. Dei, VIII, 5: « Interfici indemnatum quemcumque hominem etiam XII tabularum decreta vetuerunt. » Non è poi da credersi che l'autorità civile sancisse l'uccisione di chi secondo le XII tavole cadeva nella sacertà per la violazione dei doveri di patronato: si tratta evidentemente di sola sanzione morale, della quale del resto non si deve stimar poca la forza nell'antica Roma: la punizione era riservata agli dei.— Per la giurisdizione sacerdotale v. cap. IX, not. 5.

(2) Omicidio. Plut. Rom. 22: « constituit etiam leges quasdam: singulare autem est quod, cum nullam in parricidas statuerit poenam omne homicidium appellavit parricidium ». Fest. s. v. parrici: « Parricida non utique is qui parentem occidisset dicebatur sed qualemcumque hominem indemnatum. Ita fuisse iudicat lex Numae Pompilii regis his composita verbis: Si quis hominem liberum dolo sciens morti duit, paricidas esto. » Ciò non sembra voler dire che l'omicidio doloso si chiamasse negli antichi tempi parricidio: ma più tosto che i primi re equiparassero il primo al secondo nel senso che lo dichiarassero reato pubblico, da perseguitarsi con pena pubblica come già sussisteva per il parricidio. Per il parricidio del resto esistè fino da tempi molto antichi la nota pena dell'affogamento dentro un sacco di cuoio. Dig. XLVIII, 9, 9 pr. « Poena

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parricidii more maiorum haec instituta est, ut parricida virgis sanguineis verberatus deinde culleo insuatur cum cane, gallo gallinaceo, et vipera et simia: deinde in mare profundum culleus iactatur. » Val. Max. I, 1, 13. Dion. IV, 62 e Zon. VII, 11 narrano che sotto Tarquinio il Superbo un duumviro soffrì quella pena per aver tradito il segreto dei libri sacri: quantunque quegli scrittori dicano che quella pena fu in seguito applicata ai parricidi, il contrario è più verisimile. Plut. Rom. 22. auct. ad Herenn. I, 13. Liv. ep. LXVIII. Oros. V, 16 riferiscono che i primi ad essere affogati in mare furono il parricida L. Hostius dopo la seconda guerra punica e il matricida Publicius Malleolus avanti la guerra cimbrica: ma anche qui si ripete ciò che avvenne per la storia del divorzio (v. cap. XII, not. 12), nè quei primi esempii strepitosi dimostrano, che per lo innanzi non fossero avvenuti parricidii e che non esistesse la pena. Essa del resto sembra essere stata minacciata dalle XII tavole stesse: auct. ad Herenn. I, 13: « et lex qui parentem necasse iudicatus erit ut is obvolutus et obligatus corio devehatur in profluentem ». Tornando all'omicidio, non sappiamo precisamente quale pena minacciassero le XII tavole al medesimo: solo Plin. n. h. XVIII, 3, 12 scrive Frugem... furtim pavisse... XII tabulis capital erat... gravius quam in homicidio »; ma probabilmente egli intese parlare del modo di esecuzione della pena, e l'omicidio venne punito per le XII tavole colla morte: la pena eseguita colla scure, come vediamo essere stato in uso nelle epoche susseguenti. Le leggi regie e le decemvirali distinguono l'omicidio doloso dal colposo, ed in questo ultimo caso non ammettono che una cerimonia religiosa a scopo di espiazione: v. i passi citati nella nota precedente e Cic. pro Tull. 21, 51: « Quis est cui magis ignosci conveniat, quoniam me ad XII tabulas revocas, quam si quis quem imprudens occiderit?... tamen huiusce rei veniam maiores non dederunt: nam lex est in XII tabulis: si telum manu fugit magis quam iecit »; e top. 17: « aries subicitur ille in vestris actionibus, si telum manu fugit magis quam iecit.» — Fra i diversi modi di omicidio sembra che già le XII tavole distinguessero il veneficio: ciò può dedursi da un passo di Gaio Dig. L, 16, 236: « qui venenum dicit, adicere debet utrum malum an bonum: nam et medicamenta venena sunt. » Per celebri processi di veneficio in Roma negli anni 422 e 570 u. c. vedi Liv. VIII, 18. Val. Max. II, 5, 3 e Liv. XXXIX, 41. Per le lesioni personali v. Fest. s. v. « Talionis mentionem fieri in XII ait Verrius hoc modo: « Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto»: cf. Gell. XX, 1, 14. Gai. III, 223. Paull. V, 4. 6. Collat. II, 5, 5: « Iniuriarum actio... legitima ea lege XII tab. qui iniuriam alteri facit V et XX HS poenam subit. Quae lex generalis fuit: fuerunt et speciales velut: Manu fustive si os fregit libero CCC, servo CL poe

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nam subito»: cf. Gai. III, 220. 223. Gell. XX, 1, 32. Id. XX, 1, 12: « ita de iniuria punienda (in XII) scriptum est: « Si iniuriam (alteri) faxsit, viginti quinque (aeris) poenae sunto »: cf. Fest. s. v. viginti quinque. Gai. III, 223. A queste disposizioni delle XII tavole non portò una variazione se non l'editto pretorio che dovette adattarle alle mutate condizioni economiche e sociali: Gai. III, 223 seg. « et videbantur illis temporibus in magna paupertate satis idoneae istae pecuniariae poenae esse. Sed nunc alio iure utimur: permittitur enim nobis a praetore ipsis iniuriam aestimare et iudex vel tanti condemnat quanti nos aestimaverimus vel minoris pro ut ei visum fuerit; sed cum atrocem iniuriam praetor aestimare soleat, si simul constituerit quantae pecuniae nomine fieri debeat vadimonium, hac ipsa quantitate taxamus formulam et iudex quamvis possit vel minoris damnare, plerumque tamen propter ipsius praetoris auctoritatem non audet minuere condemnationem »: cf. Inst. IV, 4, 7. Paull. V, 4, 6. 7. Collat. II, 2. Si vegga anche in Gell. XX, 1 il curioso racconto delle gesta di Veratius. Non è però possibile determinare l'epoca precisa, nella quale incominciarono queste modificazioni dell'editto. Per la occentatio v. Cic. de rep. IV, 12: « XII tabulae cum perpaucas res capite sanxissent, in his hanc quoque sanciendam putaverunt: Si quis occentavisset, sive carmen condidisset quod infamiam faceret flagitiumve alteri »; cf. Tusc. IV, 2. Fest. s. v. « Occentassit antiqui dicebant quod nunc convicium fecerit dicimus. » Paull. V, 4, 6 parafrasa de famosis carminibus. La pena è accennata da Cornut. in Pers. I, 137: « lege XII tab. cautum est ut fustibus feriretur qui publice invehebatur.» Da quel passo delle XII tavole va ben distinto l'altro riferito da Plin. n. h. XXVIII, 2, 10-17, « qui malum carmen incantassit », sebbene gli abbiano confusi Horat. sat. II, 1, 82, e Arnob. adv. gent. IV, 34. La repressione dei reati contro l'ordine delle famiglie era rilasciata, come fu detto, all'iudicium domesticum e alla privata vendetta. Gli scrittori attribuiscono già a Romolo la determinazione dei reati della moglie: v. Dion. II, 25: « De his cognoscebant cognati cum marito: de adulteriis et si qua vinum bibisse argueretur: hoc utrumque enim morte punire Romulus concessit.» Plut. Rom. 22: « constituit quoque leges quasdam, quarum illa dura est quae uxori non permittit divertere a marito, at marito permittit uxorem repudiare propter veneficium circa prolem vel falsationem clavium vel adulterium commissum etc. » L'adultera poi, se colta sul fatto, poteva essere impunemente uccisa dal marito o dal padre: v. Gell. X, 23. Sen. de ira, I. i. f. e scol. Cruq. ad Horat. sat. II, 7, 61. Anche l'adultero poteva essere ucciso, anzi sembra che non potesse essere risparmiato, quando il marito uccideva l'adultera: v. Quinctil. V, 10, 104: « lex (XII tab...?)... prohibet adulteram sine adultero

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