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Scythas etc. con ciò che segue. Si che lo scrittore, ch'intende di scriver l'istoria o di paesi non conosciuti, o di tutto l'universo intiero, se non è perito cosmografo tradirà la sua riputazione con molti errori, presso gli uomini più saputi; e schernirà la credulità de' men periti leggenti, con false descrizioni.

Ma se per avventura dalle province già note con la sua fatica non esce, sarà forse a lui quella notizia bastevole che somministra la corografia e la topografia, col dichiarar la situazione della provincia; non tanto dall' elevazione del polo, quanto dalla giacitura de'confinanti paesi, dall'attraversamento de' fiumi, dall' innalzarsi de' monti, dai porti, dai seni, dalle città, dalle selve. Ne' luoghi poi particolari non potrà nè anche fuggire di più minutamente descrivere (se fanno a proposito del racconto) una pianura scoperta, e perciò incapace d'imboscate e d'insidie; una collina rilevata, ed in conseguenza opportuna a signoreggiar la campagna, ed a pigliarsi sopra il nemico il vantaggio; il corso d' una riviera, lungo la quale campeggiando un esercito conduce seco senza fatica de' soldati le munizioni ed i viveri; e cose somiglianti che paiono a prima vista leggere. E per mancamento di cosi necessaria cognizione molti errori si contano negli istorici, con derisione di chi gli rapporta. Ho detto altrove, che Luciano facetamente d'un cotale istorico si lamenta che non solamente l' Europo città della Macedonia trapportò nella Mesopotamia e la fece colonia degli Edessei, lungi due posate sole dall'Eufrate, ma la sua patria parimente: idem generosus ille in eodem libro sublatam, una cum ipsa arce, et muris in Mesopotamiam transtulit, ita ut tota ambiretur, ac terminaretur utroquem flumine, etc. Di molti altri, e specialmente d'Efforo racconta Giuseppe, che per non aver veduti i paesi de' quali scrivevano, e per negligenza di mendicarne almeno bisognevole notizia d'altronde, scrissero de' Francesi e degli Spagnuoli cose si assurde: ut unam civitatem esse arbitrarentur Iberos, qui tantam partem occidentalis terræ noscuntur inhabitare. E un autore moderno di grande ingegno, ma di dannata memoria, osserva che Stefano nomina i Franchi come popoli dell' Italia, e Vienna dice essere un castello della Galilea. Arriano pone l'abitazione de' Germani non lontana dal mar Ionio. Strabone vuol che il Danubio sia vici

nissimo all' Adriatico. Erodoto all' incontro lo fa scorrere a ri troso dall' occidente. Dionigi non sa che cosa sieno i Pirinei; il Sabellico confonde i Dani coi Daci. Io so d' un gran signore, che non intendendo che cosa fossero l'isole, interrogava un tale (che di Corsica era venuto pur dianzi) s'aveva o fanghi o nevi nel suo viaggio trovate; gli rispose colui, che era partito da un isola, che però non aveva tra via conteso con quella sorte d' incomodi; replicogli più volte quel personaggio; perché? nè mai finiva di chiedergli della malagevolezza della strada, se avvedutosi finalmente il viaggiante della sciocchezza, non gli avesse dichiarato che cosa era un'isola. E qui sia il fine giacchè degli errori incontrati in questa parte da coloro che poco avvedutamente compongono, s'è altrove e con l'insegnamento e con l'esempio bastevolmente trattato.

CAPITOLO QUINTO.

DEL FINE DELL' ISTORIA E SE POSSA RIDURSI AD ARTE.

Fine della poesia variamente assegnato dagli autori, o l'utile o il diletto.Poeta assomigliato al cuoco e al medico.- Pareri dell' Alicarnasseo e di Luciano intorno al fin dell' Istoria, in apparenza discordanti, ma si conciliano.-Fine vero dell'Istoria, l'utilità congiunta però col diletto. I poeti s' usurpano la lode d'eternar le memorie, la quale è degli istorici. Si contano per amplificazione varie utilità dell' Istoria. — A favore del diletto si porta un luogo di Massimo Tirio. — Istoria cade sotto i precetti dell' arte, non meno che la Rettorica. - S'esamina un luogo di Quintiliano. - Luciano ne diede le regole, e forse anche Dionigi Alessandrino, e altri che si riferiscono tanto antichi quanto moderni.

Ingegnosa è la lite che fra gli accademici Italiani agitata, ha partoriti alla nostra lingua molti eruditi discorsi, quasi tanti consulti di valenti avvocati. Chiedesi, se la poesia come suo bersaglio rimiri il gusto, o l'utilità del leggente. Coloro, che ne dipingono il poeta per artefice del diletto, lo rassomigliano al cuoco, di cui non è pensiero di esaminar l'occulte qualità, ma di regolar il sapore sensibile de'cibi, onde ne rimanga non tanto ben proveduto lo stomaco, quanto ben lusingata la gola. Gli altri all'incontro, desiderosi dell' utile, lo paragonano al me

dico, il quale ogni delizia di condimento posta in non cale, ancorché amareggiata si risenta la bocca, la sola sanità de'cibi, non la soavità si procaccia. Per l'una e per l'altra parte autori grandi si citano, nè sanno finora i giudici di Parnaso alla sentenza risolversi. L'istesso avvenimento scorgo io di tutto punto nella materia istorica, di cui nel presente libro io ragiono. Imperciocchè Dionigi Alicarnasseo paragonando con Tucidide Erodoto, fassi con una regola generale da capo, ed in cotal guisa discorre: Primum officium esse puto, et id vel maxime omnibus necessarium, qui res gestas hominum monumentis annalium mandare student, materiam eligere pulchram, et iucundam, ac eam, quæ animos legentium voluptate afficiat, atque perfundat; nel che stima più giudicioso Erodoto, che Tucidide. Luciano all'incontro, che se ben parve, nella pratica delle sue vere istorie, schernitore più che maestro dell'arte di ben comporle, nell'operetta però, che a bello studio scrisse di questa materia, tutti i migliori insegnamenti ristrinse, che da qualunque più savio istorico si possano ad uso ridurre; dirittamente all'opinione dell' Alicarnasseo si contrappone, dicendo: unum enim opus est historiæ, et unus finis, utilitas, quæ ex sola veritate conciliatur. Ora noi posti in mezzo fra due tanto autorevoli scrittori, che con la forza delle ragioni e con l'autorità del nome fra di loro combattono per la vittoria, a quale delle due parti ci accoste remo? A niuna; ma con opportuno temperamento ci studieremo di ridurle a concordia, toltè che sieno di mezzo due difficultà, che nel discorso potrebbono con l'equivoco ritardarci.

Suppongo dunque nel primo luogo, che la quistione cada sopra il fine non dell'istorico, ma dell'istoria. Perchè non è l'istesso quello che nel suo lavoro si propone l'artefice, e quello ch'è stabilito in riguardo dell'arte. Fabbrica il frenaio un freno per la mercede che ne spera dal cavaliere; e questo è l'unico fine de' suoi sudori: ma l'arte fabbricatrice lo forma a fine che con esso acconciamente il cavallo si governi e si regga. Qual sia il fine di chi scrive l'istoria Iddio sel sa; non è senza dubbio in ciascuno l'istesso: poichè altri può rivolgersi all'utile che ne pretende; altri sollecitato dal disiderio della gloria vuol lasciar nel racconto degli altrui fatti il suo proprio nome vivente ed

MASCARDI,

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eterno; altri s'apre un bel campo per far pompa d'eloquenza e d'ingegno; altri disegna di conservare a' posteri le gloriose memorie della sua nazione; altri s'ingegna di servir à tutto suo potere all'utile della repubblica: in somma quanti sono i componitori dell'istoria, tanti possono essere i fini che alle lor fatiche propongono.

Nel secondo luogo io dichiaro, che non del fine che si nomina immediato, il quale sotto diversa considerazione può dirsi, anzi mezzo che fine, argomento di ragionare; perchè di questo non si quistiona fra valent' uomini; ma dell'ultimo, che però nell'intenzione è il primo. Onde s'alcuno rispondesse al quisito con dire, il fine dell'istoria esser la conservazione degli avvenimenti umani nella memoria de' posteri, direbbero vero in suo senso, perchè questo è il fine primo, ma non primario che vien proposto all' istoria; ma io all'incontro direi, che il conservar nella memoria degli uomini gli avvenimenti memorevoli è un mezzo, per cui l'istoria arriva al suo vero fine, ch' or ora dichiareremo. Si che quando il fine dell'istoria da noi si considera, intendiamo sempre di quello, che è l'ultimo in quanto all'effetto, benchè primo nell' intenzione.

Dichiarata cotal dottrina, agevolmente Dionigi e Luciano, come buoni compagni, s'accordano; perchè rattenendo ciascuno il suo proprio parere, dà luogo insieme a quel dell' amico; e dall'unione d'entrambi nasce la vera risoluzione del dubbio. Dionigi dunque, il quale parve si dilicato con l'espressa parzialità del diletto, nel luogo da noi lodato pur dianzi, altrove virilmente si risolve, e dice: historicis eligenda sunt argumenta præclara et magnifica, et quæ magnam utilitatem lectoribus afferant. E Luciano all'incontro si rigoroso nella sua passata dottrina, veste pian piano sensi d'umanità: quare historia si quidem obiter, et velut auctarii modo iucunditatem additam habeat, complures amatores ad se alliciet. L'utile dunque de' leggenti è il vero fine che si propone l'istoria, ma tanto strettamente col diletto congiunto, che l'uno, per lo più, non può in componimento di buona mano separatamente trovarsi; e ciascun di loro nel proprio genere è grande.

Ma dell'utilità dell'istoria tanto meno a noi rimane da ragionare in questo capitolo, quanto più n'abbiamo favellato in

molte occasioni per tutto il libro; se non volessimo con fatica a noi disutile ed a'leggenti sazievole, riandare le già trascorse materie. Alcuna cosa però più generale s'accennerà, per non mancare all'uso ed all'occasione ed al luogo. Potrei dire essere utilità impareggiabile dell'istoria ch'ella riserba all'immortalità della gloria le prodezze degli uomini, anzi de' popoli valorosi; le quali per altro, dentro all' angusto giro d'una brevissima vita imprigionate, rimaner dovevano co' cadaveri sepellite.

Note sono le millanterie de' poeti, che l'eternità de' grand' uomini dipender dalle lor penne magnificamente protestano. Il più generoso, che cantasse tra' Greci, nell'inno suo bellissimo a Sogene giovinetto d'Egina, cosi vien fatto favellare dalla penna toscana dal signor Alessandro Adimari virtuosissimo gentiluomo: Stassi l'altero oprar cinto d'oblio,

Se il sol degl' inni alla virtù s'asconde;
Unico specchio al suo valor natio

Trova quei sol, ch' all' auree Muse accanto,
Premio ba del suo sudor l'aure del canto;

ed altrove esorta Ierone con l'esempio di Creso, ad esser liberale con la canora nazione de' poeti, se bramava, che sempre verde nella memoria de'posteri fiorisse la fama della sua virtů; e conchiude secondo la versione di Niccolò Sudorio:

Sors prima vitæ vincere, et altera
Hymnis merentem grandiloquis cani;
Utrumque nactus, tempora ingens
Siderea religat corona;

né Orazio diligente imitator di Pindaro, in questa parte da'sentimenti del suo maestro consente d'allontanarsi; anzi a piena bocca anch'egli l'efficacia de' versi, quasi medicina della dimenticanza e balsamo d'eternità, va lodando; e vuol che le prodezze di Scipione famose sieno, non per la fuga, alla quale astrinse Annibale minacciante, o per gli ultimi incendi dell'empia e desolata Cartagine, ma per le poesie d'Ennio, che così belle imprese descrisse; e poi con una sentenza generale si studia di stabilire il suo dogma:

neque

Si chartæ sileant quod benefeceris
Mercedem tuleris;

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