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§. 1.

Titolo del diritto di espropriazione in Roma

fu la necessità e la utilità pubblica.

- Così fu accolta, come un principio di equità di diritto, poichè in fine jus est quod semper bonum et aequum est (1), la regola, che al bisogno dei comodi dovesse prevalere la necessità, alla necessità di un' individuo quella di più individui, a quella di più individui la necessità del Comune e dello Stato. A tali principï si ispira infatti la legge Rodia (Dig. XIV Tit. II. De lege Rhodia de jactu) quando, per sfuggire ad un pericolo comune, comanda il getto della mercanzia, che un' individuo ha a bordo della nave, però coll' obbligo di risarcire con generale contribuzione ciò che fu gettato per vantaggio comune « omnium contributione sarciatur quod pro omnibus datum est » (fr. 1 eod. loco); quando ordina di tagliar l'albero della nave sempre allo scopo di alleggerire la medesima però collo sborso di un' indennizzo (fr. 5 § 1 eod.) « Arbore caesa, ut navis cum mercibus liberari possit aequitas contributionis habebit locum » e quando comanda che, facendo difetto i viveri in corso di navigazione, debba ciascuno conferire in comune ciò che ha dei medesimi (fr. 2 § 2) <... Quo in numero essent cibaria eo magis quod si quando ea defecerint in navigationem, quod quisque haberet, in commune conferret. » Così al fr. 29 § 3 Dig. IX Ad legem Aquiliam II « Item Labeo scribit, si cum vi ventorum navis impulsa esset in funes anchorarum alterius (et) nautae funes praecidissent, si nullo alio modo, nisi praecisis funibus explicare se potuit, nullam actionem dandam. Idemque Labeo et circa retia pescatorum in qua navis inciderat aestimarunt, Plane si culpa nautarum id factum esset lege Aquilia agendum. » Ai principii che sopra si ispira ULPIANO allorquando afferma: che se un tale per difendere la sua casa distrusse quella del vicino, ove era nato un incendio, non si dovrà concedere contro quello l' azione, poichè avendolo fatto per difendere la sua casa è scevro di dolo. Inoltre afferma, che non si possa nemmeno agire contro lui colla legge Aquilia, perchè non operò con ingiuria colui, che voleva preservare la sua casa e non lo poteva fare in altra guisa. Così il fr. 3 § 7 Dig. XLVIII

(1). Fr. 11 Dig. I De justitia et jure 1.

De incendio ecc. IX .... Si defendendi mei causa vicini aedificium orto incendio dissipaverim: et meo nomine et familiae iudicium in me dandum? cum autem defendendarum mearum aedium causa fuerim, utique dolo careo: puto igitur non esse verum quod Labeo scribit. An tamen lege Aquilia agi cum hoc possit? et non puto agendum: nec enim iniuria hoc fecerit, qui se tuera voluit, cum alias non posset et ita Cassius scribit. » Si confronti fr. 7§ 4 Dig. XLIII Quod vi aut clam XXIV ove si afferma lo stesso. Finalmente agli stessi principii di necessità pubblica fa appello la già citata costituzione di Anastasio, ove è comandata « SI NECESSITAS EXIGAT > < URGENTE NECESSITATE » « SI INEVITABILIS QUAEDAM CAUSA ID FIERI

EXIGAT » la vendita a giusto prezzo, per parte dei possessori, del frumento e degli altri generi a coloro che ne hanno bisogno (1).

Ma, come sopra ho detto, anche il principio della pubblica utilità servi in seguito come titolo al diritto di espropriazione e fu stabilita definitivamente la regola, che all' interesse privato dovevasi anteporre l'interesse pubblico.

Così la Const. 3 Cod. XII De primipilo LXIII UTILITAS PUBLICA PRAEFERENDA EST PRIVATORUM CONTRACTIBUS » ed altrove Giustiniano (Const. unica Cod. VI De caducis tollendis LI) « Tantum etiam nobis superest clementiae, quod scientes etiam fiscum nostrum ultimum ad caducorum vindicationem vocari, tamen nec illi pepercimus, nec augustum privilegium exercemus, SED QUOD COMMUNITER OMNIBUS PRODEST HOC (rei) PRIVATAE NOSTRAE PRAEFERENDVM ESSE CENSEMUS. » Lo stesso è detto nella Nov. Auth. XXXIX. Cap. 1 «.... Etsi mulier restitutione gravetur non impedimentum ad dotis oblationem fieri, EA ENIM, QUAE COMMUNITER OMNIBUS PROSUNT, IIS, QUAE SPECIALITER QUIBUSDAM UTILIA SUNT PRAEPONIMUS. » principio. che è ripetuto nella Const. 3 § 3 Cod. VI Communia de legatis et fideicommissis XLIII, ove si proibisce di alienare le cose soggette a restituzione Res quae subiacent restitutioni, prohibentur alienari quidem, vel obligari; sed si liberis portio legitima non sufficiat ad dotis, sive donationis propter nuptias obligationem permittitur res praedictas in eam causam alienare vel obligare pro modo honestati personarum congruo. EA ENIM, QUAE COMMUNITER OMNIBUS PROSUNT, HIS, QUAE SPECIALITER QUIBUSDAM UTILIA SUNT, PRAEPONIMUS. » Inoltre il fram. 48 Dig. XXXIX De damno infecto II, mentre vieta la demolizione degli edifizî allo scopo di vendere ai privati i materiali, la permette se si faccia colla intenzione di usare delle colonne e dei marmi per la costruzione di una opera pubblica e que

(1). Const. unica Cod. X Ut nemini liceat in emtione specierum ecc. XXVII.

sto appunto perchè l'interesse pubblico deve preferirsi al privato. Altrove (§ 2 Inst. I. Tit. VIII) è comandata ai padroni, che usano sevizie verso i loro servi, la vendita a giusto prezzo dei medesimi e ciò per la unica ragione dell' interesse pubblico: « EXPEDIT ENIM REIPUBLICAE NE SUA RE QUISQUE MALE UTATUR. » Nella Const. 53 Cod. Theod. XV De operibus publicis I, già altrove riportata, è espressamente notato lo scopo di quelle costruzioni, che esigevano la espropriazione dei beni dei privati: « UT PUBLICIS COMMODIS POSSINT CAPACITATIS AC PULCHRITUDINIS SUAE ADMIRATIONE SUFFICERE. » E finalmente nella Const. 50 Cod. XV. Tit. 1 ove si decreta la espropriazione di alcuni edifizî privati per costituire le « Termas Honorianas » è detto esplicitamente che per una opera così insigne potevasi legalmente (juste) sacrificare un po'l'interesse privato. « Cu

IUS DECUS TANTUM EST, UT PRIVATA JUSTE NEGLIGERETUR PAULLISPER UTILITAS (1). »

§ 2.°

La espropriazione per pubblica utilità si fece col minimo possibile sacrificio della proprietà dei privati.

Dalle cose sopra esposte deriva, che se i Romani riconobbero, come regola generale, la inviolabilità della proprietà, pure vi fecero una eccezione nel caso di conflitto fra l'interesse privato e il pubblico e, come hanno fatto i legislatori dei giorni nostri, stabilirono la massima, chè quando l'interesse pubblico lo esige, ogni cittadino può essere tenuto a cedere in tutto od in parte la sua proprietà. Il che è sinonimo di fare prevalere la cosa pubblica alla privata col minimo possibile sacrificio della privata proprietà e libertà e col conciliare il più che sia possibile i due opposti interessi.

Ed infatti anche questo principio è scritto nelle leggi romane. Anche quando si comanda il passaggio pel fondo altrui allo scopo di compiere sacrifizi sulle tombe degli avi, si aggiunge però che il tutto si faccia col minore incomodo possibile « ne vicinus magnum patiatur detrimentum » (fr. 12 p. Dig. XL De religiosis et funerum sumtibus VIII.) Inoltre Onorio e Teodosio, nella costituzione più

(1). Si noti ancora, che nel Diritto Romano il principio della pubblica utilità è il fondamento di tutte le limitazioni all'esercizio del diritto di proprietà (servitù legali).

volte citata, lo affermano fino all' evidenza laddove è detto: « cuius decus tantum est, ut privata iuste negligeretur paullisper utilitas. Lo ripete Teodosio nell' altra costituzione (1), ove conclude « Ita enim et splendor operis et civitatis munitio cum privatorum usu et utilitate servabitur. » Lo comanda il senatusconsulto, riportato da Frontino nella sua opera e da me sopra trascritto, il quale, ordinando di togliere dai poderi dei privati ciò che fosse biso-gnevole per i restauri da farsi agli acquedotti, vuole però che tutto si faccia « sine iniuria privatorum. » Ed in ultimo ce lo assicurano Cicerone (2) quando, maravigliandosi di quello che aveva speso Cesare per espropriare i terreni e le case dei privati onde allargare il foro, esclama: « cum privatis non poterat transigi minori pecunia e Frontino quando afferma, che se un proprietario avesse trovata difficoltà a vendere parte del proprio fondo, gli era dato l'intero prezzo del medesimo « si difficilior possessor in parte vendenda fuerat pro toto agro pecuniam intulerunt. Infatti tutto questo denota, che allo scopo di conciliare più che fosse possibile l'interesse privato all'interesse pubblico, i Romani non furono alieni a fare le più late concessioni.

§ 3.o

Come si amplifica il concetto
della pubblica utilità.

A' giorni nostri ferve la questione fra i giuristi se, sotto la espressione di pubblica utilità si debbano comprendere gli abbellimenti ed ornamenti delle città quae speciem dumtaxat ornant ▾ i diletti e i piaceri. Alcuni rispondono negativamente, altri ritengono, che vi si debbano includere, purchè non si abusi di siffatta estensione. Portando il quesito nel giure Romano, mi sembra che nel diritto di espropriazione per causa di pubblica utilità vi si comprendessero.

Infatti il concetto della utilità pubblica si vede ampliato in qualche testo in tal modo da abbracciare anche la pubblica comodità ed il pubblico decoro. Così nella Const. 53 Cod. Theod. XV De operibus publicis sono comandate delle espropriazioni « ut publicis commodis possint capacitatis ac pulchritudinis suae admiratione suf

(1). Loc. cit. (2). Loc. cit.

ficere e nella Nov. VII Cap. 2 § 1 si permette l'espropriazione anche dei beni immobili degli ecclesiastici « si qua communis, commoditas est. » Ma ogni dubbio mi sembra tolto dal fr. 7 Dig. I De Officio praesidis XVIII, ove si legge : « Praeses provinciae, inspectis aedificiis, dominos eorum, causa cognita, reficere ea compellat: et adversus detractantem COMPETENTI REMEDIA DEFORMITATI AUXILIUM · FERAT, » Ossia, che il preside della provincia, fatta la ispezione degli edifizî, ne obbligherà i proprietari, previa cognizione di causa, a restaurarli e se ricusano potrà provvedere competente rimedio alla pubblica deformità.

Questo competente rimedio fu introdotto dall'imp. Marco Aurelio. Il curatore della città o del comune che dir si voglia, al quale, fra le altre incombense, spettava la cura di far restaurare dai padroni le case rovinose, se ne vedeva nella città qualcuna, si rivolgeva al preside e gli chiedeva che provvedesse alla deformità. Allora il preside comandava, che fosse chiamato il padrone dell'edifizio e gli ordinava i restauri e, solo nel caso di renitenza, decretava al curatore del comune il competente rimedio; ottenuto il quale, il curatore faceva restaurare l'edifizio a pubbliche spese e se il padrone, eseguito il restauro, entro il termine di quattro mesi, non avesse sborsato l'ammontare di quanto si era speso cogli interessi gli veniva tolta la proprietà della casa. Così infatti è detto nel fr. 46 pr. § 1 Dig. XXXIX De damno infecto II. « Domum sumtu publico extructam, si dominus ad tempus pecuniam impensam cum usuris restituere noluerit jure, eam Respublica distrahit. »

Altrove poi una costituzione dell'imp. Alessandro, mentre rammenta, che è proibito di demolire gli edifizî allo scopo di negoziare i materiali (1), permette però che si possa far cangiare di figura, una casa, purchè si faccia senza deformare la pubblica veduta. « Negotiandi causa aedificia demoliri et marmora detrahere edicto Divi Vespasiani et senatus consulto vetitum est. Ceterum de alia domo in aliam transferre quaedam licere exceptum est. Sed nec dominis ita transferre licet, ut integris aedificiis depositis, publicus deformetur aspectus. » Const. 2 Cod. VIII De aedificiis privatis X.

(1). Conf. fr. 41 § 9 Dig. De legatis et fideicommissis I; fr. 45 Dig. XXIV De donationibus inter virum et uxorem I; fr. ult. Dig. XXXIX De damno infecto II; fr. 52 Dig. XVIII, De contrahenda emtione I; fr. 41 Dig. XXX De legatis I; fr. 43 § 1 ivi; Const. 6 e 7 Cod. VIII De aedificiis privatis X; fr. 48 Dig. XXXIX De damno infecto II.

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