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E la ferie diverfa, e la bellezza
Di quegli enti mirare, ond' è ripieno,
Onde si vagamente il Ciel s' adorna;

E intender tu vorrai gli alti misterj

Di quella faggia economia profonda,

Che il Mondo tutto a voglia fua compofe?

E che forfe il tuo fpirito orgogliofo

Tra i legami del corpo imprigionato
Del configlio divin trovoffi a parte?
Non già l'imbelle tua deftra mortale,
Ma la divina onnipotente mano

Fu, che ordi, che foftien quella catena,
Di cui l'occulta forza i corpi attrae,

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E mentre che gli attrae, li regge, e guida.
Temerario mortal! la tua ragione

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Pace non ha, se a rifaper non giugne

Per qual cagion, per qual difegno ascofo
Si piccolo, si fiacco, e si ristretto
Nelle tue vifte ti formò Natura.

Ma prima infegna a me, donde addiviene,
Che più imperfetto ancor nato non fei;
Dimmi, per qual cagion la quercia annofa,
Che fin nel fen delle più eccelse nubi
I fuperbi fuoi rami inoltra, e ftende,
Umili piante alle radici intorno

Sotto l'ombra materna accoglie, e nutre ?
I brillanti Satelliti di Giove

Tu vedi; or dimmi, e perchè mai racchiufi
Tra gli angufti confini lor prefcritti
Grandezza egual non hanno a quel Pianeta,
Che li guida nel corfo, e li dirige?

Se il grande Iddio tra i fuoi decreti eterni,
Un modello scegliendo il più perfetto,
Volle un Mondo creare, in cui risplenda

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L'immenso fuo potere, in cui cofpiri
Tutto in ordine, e lega, anco tra quelle
Parti, che più tra lor difgiunte fono,
In cui fenza lafciar vuoto tra loro
Quegli enti, ch' ei vi fe', crefcendo a gradi
Fin preffo all' infinito, egual, mifura
Serbin, qual lor convienfi, in lor carriera;
Se ad empier quefto tutto, opra ftupenda
Dell' arbitrio divin, tra le diverse
Claffi degli animali, un grado anch' effo
Vi dee l' Uomo occupar, permeffo è folo
D' inveftigar, fe il Ciel giufto a bastanza
Nel rango lo poftò, che a lui conviene.

Nell' Uom, tal quale egli è, ciò che a te sembra
Un mal, diventa un ben, quando tu guardi
L'ordine univerfal: prefume in vano
Diftinguer, fe una parte è pofta a fegno,
Chi non fi volge a ciò, che il tutto efige.
Quando al fiero deftrier non fia nafcofa

La cagion, per cui l' Uom, che pria domollo,
A morder lo coftringa il duro freno,

E a traverfo del piano polverofo

Al corfo a voglia fua tanto l' affretti,
O moderi l'ardor, che lo trafporta;

Quando che il pigro bue punto nel fianco
Dallo ftimolo acuto, avrà contezza

A qual' ufo apra il folco in ful terreno,
O per qual bizzarria cinto di fiori,

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IZO

D' offerte, e voti, in Memfi onor riceva;
La mente noftra allor refterà fgombra

Da quegli errori, onde mal fcerne il vero,
Ne di oppofti principj entro noi fteffi
Vi farà più contrasto, e l' Uomo allora
Di conoscere a fondo avrà diritto,

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Perchè agli affetti fuoi ferva, e comandi,
Debole tanto, e tanto grande infieme,
E perchè col fuo cor fempre in battaglia.
Or fi abbaffi al di fotto di fe fteffo,
E fino all' Ente fommo ora fi eftolla.
Taccia dunque colui, che il Cielo accufa
Su i difetti dell' Uom; provido il Cielo
Lo fe' qual' effer dee, qual fi conviene;
Tutto ci moftra in lui l'alto fapere

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Del benefico Iddio, che lo produsse,

Perchè foffe del Mondo abitatore:

Un momento è il fuo tempo, e un punto è quello

Spazio, che ad effo ad occupar: fu dato.

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Moffo ad orgoglio infan, dentro le oscure

Cifre dell' avvenir legger vorresti.

Ma tu non fai, che in folta nube involti

I libri del deftino all' Uomo chiusi

Solo all'occhio di Dio reftano aperti?

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Quel che a i bruti ei nafconde, all' Uom rivela,

E ciò, che cela all' Uom, non tiene ascofo

Ai puri Spirti del beato Empiro.

E chi potria quaggiù fenza di queste

Tenebre, che circondano i mortali,

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Trarre i fuoi trifti giorni in lieta pace?

Quell' innocente agnel, che al fin del giorno

A perir condannò tua fame ingorda,

Se aveffe la ragion, che a te fa scorta,

Se del colpo fatal folle prefago,

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Forfe che in calma attenderia la morte?

Fino al momento eftremo ei ftà fcherzando

Le frefche erbette a pafcolar fu i prati
Scevro d' ogni timor, d'ogni fofpetto,
In mezzo dell' orribile periglio,
E accarezza giulivo il braccio istesso,

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Che di ferirlo in atto è già diftefo;
Fortunata ignoranza, error felice,

Che al noftro inquieto cor vela il futuro;
Arcano, che a fe fteffo Iddio riserva,
Perchè ciafcuno il fuo deftino adempia!
Tutto in tal guifa è a quel poter foggetto,

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Che fu giufte bilance il tutto pefa;

Che d'un occhio tranquillo, e in calma vede

Il paffero cader, perir l' Eroe,

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Difciorfi in acqua paffeggiere nubi,

O con orribil tuono i Cieli aprirfi,
A feconda del vento dolcemente
La ruggiada piegare, o i Mondi intieri
Nel nulla antico ritornar fepolti.

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Dunque l'audace vol moderi, e freni

Chi di foverchio in fuo faper s'affida:

Non lungi è quel momento, in cui la Morte,

Quella cruda Tiranna univerfale,

I decreti del Cielo a noi palefi.

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Ma l'Indian, che povero d' ingegno

Non fa con l'arte vantaggiar quei doni,
De' quali a lui fu prodiga Natura :
Se all' aere ei fi rivolge, Iddio vi trova;
S' Eolo gli foffia intorno, Iddio vi fente:
Più in là dei fenfi il fuo faper non ftende;
Con loro ei fi governa, e in quegli oggetti,
Che fembran più viftofi, ivi fi arresta;

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Il Sole, e gli altri corpi luminofi,

Che il Cielo azzurro agli occhi fuoi prefenta,
Fan del conofcer fuo tutta la sfera.

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Intanto a raddolcir le noje amare
Del fuo viver penofo, ei fi figura
Un foggiorno più ameno, e più felice,

In cui fpera, che a lui ferbifi un tempo

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Quel piacer, che la forte or gli contende.
Di là da i monti, al guardo ultimo fegno,
Si finge un Cielo, ed una terra ignota,
Che dal furor d'un vincitor Tiranno
Lo porrà in falvo, e gli farà d'afilo;
Quando che al mar fi volge, e fi dipinge
In mente allora un' Ifola beata,

In cui di fe, del fuo deftin fignore,
Da un benefico Nume avrà riftoro
E difcioglier vedrà le fue catene,
Nè di larve importune avrà fpavento,
Che vengano a turbargli i fuoi ripofi,
Ne in quei placidi lidi, e beni, e vita
Vedrà più in preda all' armi de' Criftiani,
Quando da ingorda avidità fofpinti
Empion tutti di stragi, e di rapine
I mondi ignoti al navigante antico.
Quella fiamma celefte ei non fofpira,
Che il puro cor de i Serafini amanti
Nell' Eterna magion nutre, e divora;
Ma d'efifter contento, il giorno attende,
Che gli apra il varco a una più dolce vita,
E lo trafporti a quella patria in feno,
Comune albergo a i miferi mortali.
Or va tu, che più faggio effer prefumi
Nelle tue vane idee, fingiti in tutto
Qualche error, qualche neo, qualche difetto :
L'ingiufta tua bilancia in mano prendi;
Contro la Provvidenza alza la voce,
Di, che ineguale Iddio ne i doni suoi
Qua prodigo ti par, là troppo avaro ;
Volgi, rovescia a tuo vantaggio folo
L'ordine di Natura, e le coftanti

Sue leggi, a genio tuo, cangia, e difponi:

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