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sempre

dallo stesso Dante, giovasse a risvegliare ne' suoi concittadini il senso della pietà e del desiderio verso di lui mendico e sbandito, ed a riaprirgli le porte della desiderata sua patria. - « Fosse però ch' ei » si desse a dettarlo di pianta, o solamente, com'è » più verosimile, mettesse insieme e allargasse con » ordine e stile molte questioni, da lui tocche e ab» bozzate in più tempi diversi, e le intrecciasse al co>>mento delle sue canzoni amorose, » (a) — è opinione di quello scrittore, ch'ei l'abbia intrapreso nel 1313 (b), dopo la morte dell' imperatore Arrigo VII. di Lucemburgo, allorchè, rimasto privo d'altre speranze probabili, e godendo del più riposato domicilio in Ravenna sotto l'ale dell'Aquila da Polenta, ritentava e travedeva fors' anche opportunità di tornare in Firenze. Se gliene fu data intenzione (così l'autore del Di» scorso (c)) non so; alcuni v'erano ad ogni modo >> che avevano a cuore il suo ritorno, e ne sollecita>> vano la repubblica. Può e non può essere ch'egli,

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paesi. E Cacciaguida, che qui non fa ch'interpretare la volontà di Dante, gli risponde risolutamente:

.... Coscienza fusca,

» O della propria o dell' altrui vergogna,
>> Pur sentirà la tua parola brusca.

>> Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,

>> TUTTA TUA VISION FA MANIFESTA,

>> E LASCIA PUR GRATTAR DOV'È LA ROGNA.

Dun que nè intendeva di nascondere ciò ch'ei fingeva d'aver veduto e sentito, nè temeva il risentimento di coloro ch'erano fatti bersaglio ai colpi del generoso suo sdegno.

(a) Disc. cit., pag. 227. (b) Ivi, pag. 205 e segg. (c) Ivi.

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>> affrettandosi a mandare copia agli amici suoi d'una parte dell' opera, v' innestasse la querela de' suoi studii disagiati, e il perdono a chiunque n'era stato cagione; e anche a' cittadini ch' avevano fallato, e de' quali fu piacere ch' egli fosse gittato fuori del >> seno della bellissima e famosissima figlia di Roma >> Fiorenza, nel quale, con buona pace di quella, >> desiderava con tutto il cuore di riposare l'animo » stanco (a)..... Quel passo quant'è più raffrontato >> co' suoi vicini, tanto più ha faccia d'intarsiatura. >> Sarebbe assai facile (b) l'andar additando che » Dante col Poema si preparava secretamente eterna gloria da' posteri; e che intendeva di pubblicare il Convito, sperando di ripatriare. >>

Da queste incerte ed avventate sentenze verremo ora a quello che pare a noi potersi con sicurezza affermare. Che Dante intraprendesse il Convito dopo aver divulgata la Vita Nuova, non havvi alcun dubbio, perocchè ne lo dice ei medesimo sul bel principio (c), e soggiunge d'averlo scritto dopo trapassata la gioventù, cioè, secondo la dottrina da lui posta nel quarto Trattato (d), dopo compiuto l'anno quarantacinquesimo. Quindi è pur cosa indubitata ch'ei fosse già esule, non tanto per la menzione che vi si trova dell'esilio (chè ben potrebbe avervela innestata dopo composte le altre parti del libro), quanto perchè la sentenza con ch'ei fu sbandito è del 1302, quando egli non era per anche entrato nell'anno

(a) Vedi il Convito, pag. 13 e segg. (b) Disc. cit., pag. 243. (c) Conv. pag. 6. (d) Cap. 24. pag. 324.

trentesimo settimo dell'età sua. Ciò che rimane incerto pur tuttavia si è, se cotesto Convito fosse scritto prima o dopo la Divina Commedia. E già dal vederlo non compiuto alcuni gravissimi scrittori argomentarono che Dante gli desse cominciamento ne' suoi ultimi giorni, nè potesse finirlo per morte (a). Il silenzio però ch'egli serba in quest'opera intorno al Poema, mentre avrebbe avute tante occasioni di nominarlo, e mentre vi nomina le altre sue cose, sì le fatte, come il Trattato del Volgare eloquio ch'era da farsi, indurrebbe facilmente a credere che non solamente quando scriveva il Convito non avesse ancora dettata la Commedia, ma non ne avesse pure concepita l'idea. L'autore del Discorso più volte allegato trova chiarissima ragione di questo assoluto silenzio nel fine che Dante si proponeva componendo il Poema; cui «< nè voleva, nè poteva, nè doveva pub>>blicare se non quando le condizioni d'Italia l'aves>> sero comportato » (b). Ma questa ipotesi, sostenuta per ispiegar Dante in modo del tutto nuovo e inusato, si è già mostrata fallace nel suo fondamento. Diremo quindi, che non per alcun fine arcano l'Alighieri non fece motto della Commedia in questo Convito, ma perchè non aveva ancora rivolto l'animo a quel divino lavoro quando, sotto il pretesto di comentare quattordici sue Canzoni sì d'Amore, co

(a) G. Villani, lib. IX. c. 134. Il Boccaccio nella Vita dell'Autore scrive non aver esso comentate tutte le Canzoni, come intendeva, o per mutamento di proposito, o per mancamento di tempo che avvenisse. (b) Disc. cit., pag. 50.

Vol. I.

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me di virtù materiate (a), e: pensava di versare in questo libro, che dovea riuscire quasi una morale Enciclopedia, i vastissimi tesori della sua mente a beneficio di coloro che non sedevano a quella mensa ove il pane degli Angeli si mangia . E questo era quel libro, in cui intendeva allora di mostrare quanto potesse la lingua nostra (c), a perpetuale infamia e depressione de' malvagi uomini d'Italia, che commendavano lo Volgare altrui (d): questo la luce nuova, il sole nuovo, il sole nuovo, che doveva illuminare coloro ch'erano in tenebre e in oscurità (e). Ma datosi poi di proposito al Poema sacro, e chiamato a porvi mano e Cielo e Terra (f), è da dirsi che questo primo lavoro gli sia caduto del pensiero, nè più l'abbia ripigliato, se non forse per inserirvi all'opportunità qualche tratto di cui gli si veniva risvegliando l'idea. Intorno a ciò ne conferma il vedere nella Divina Commedia lungamente confutata per bocca di Beatrice (g) l'opinione qui sostenuta, che l'ombra della Luna sia rarità del suo corpo (h). Di che già s'era accorto il P. Lombardi, acutissimo in tutte le cose di Dante. Diremo di più: ove l'Autore tocca dell'immortalità dell'anima, chiude colle seguenti parole: di quella ragionando, sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, DElla quale più parlare in questo libro non INTENDO (i). Dunque egli intendeva di parlarne in altro libro, del

(a) Conv. pag. 6. (b) Ivi, pag. 3. (c) Ivi, pag. 4o. (d) Ivi, pag. 42. (e) Ivi, pag. 52. (f) Par. C. XXV. (g) Par. C. II. dal v. 61 sino alla fine. Vedi anche C. XXII. v. 139. (h) Conv. pag. 107, ed ivi la nota (1). (i) Ivi, pag. 90.

quale non aveva forse nella sua mente ancora ben determinata l'idea. E quest'altro libro si fu poi la Divina Commedia, in cui parlò di Beatrice con sì alto stile e con fantasie tanto celesti, che ne pare incredibile che da tanta altezza egli abbia potuto discendere a ravvolgersi fra le spine di questo Convito, benchè qui pure si manifestino a grandi tratti di luce i lampi del sublime intelletto.

Fin qui abbiam reso conto della trista condizione a cui venne ridotto il testo del Convito dai copisti e dagli editori, ed abbiamo discorso in generale dell'opportunità d'una più accurata edizione del medesimo, aggiungendo alcuni cenni sull'indole del libro, e sul tempo in cui Dante sembra averlo intrapreso. Ora ci resta a dire quello che per noi si è fatto onde ridurlo a lezione migliore.

E prima di tutto abbiamo ritenuto nel titolo Convito, rifiutando Convivio alla maniera latina, il che piaceva a monsig. Fontanini (a), coll'autorità del Varchi, del Boccaccio e del Tasso; perchè niuna autorità in questo caso dee prevalere a quella dello stesso Dante, il quale nel Capitolo primo (b) scrive: « E se » nella presente opera, la quale è CONVITO nomina

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ta, e vo' che sia, ecc.; » ed usa poi sempre Convito, in ciò accordandosi tutti i codici. Questo sia detto a coloro i quali anche coteste cose stimano di qualche pregio.

Affinchè poi se la lezione del Convito avesse potuto sanarsi dalle infinite sue piaghe col riscontro di

(2) Bib. Classe IV. cap. VII. (b) Conv. pag. 6.

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