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non è mai ricordato per sè stesso, ma solo per impedire che in tutto o in parte avesse potuto aver luogo l'altro già stipulato. Esso costituiva la regola o il regime legale, che perciò non aveva bisogno di essere richiamato volta per volta. E regime legale poteva dirsi sotto più di un rispetto.

Prima di tutto, in quelle contrade della Sicilia, ed erano le più, dove la comunione aveva luogo solo quando dal matrimonio nascevano figli, nei matrimoni senza prole (nonostante che si fosse espressamente detto di contrarli more Latinorum?) - la comunione non si verificava, e quindi, non avendo luogo la confusione dei beni, la dote e il dotario, o la donazione nuziale, conservavano intera la loro efficacia giuridica. Sicchè in questi casi vigeva in sostanza anche il regime dotale.

Inoltre di regime dotale si doveva parlare anche per quelli fra i Normanni stanziatisi in Sicilia, che, al pari di coloro che s'erano fissati sulla terraferma, non regolavano i rapporti patrimoniali nei loro matrimoni col sistema della comunione, ma con istituti su per giù corrrispondenti a quelli usati dai Greci. La dote era comune ad entrambi, ed il dotario corrispondeva siffattamente al teoretro, che ne prese ben presto il nome. Sicchè, quando questa parte della popolazione normanno-siciliana parlava, nel contrarre matrimonio, di costituzione di dote e di dotario, e non dichiarava di voler seguire la consuetudo Latinorum, questa ad essa non era affatto applicabile.

Infine, il regime dotale era proprio, oltre che delle così dette colonie lombarde stabilitesi nell'isola sotto il dominio normanno, e dei numerosi Italiani residenti in Sicilia per ragioni di commercio, anche e soprattutto checchè siasi detto in contrario della popolazione greca originaria del paese, dalla quale, come dal gruppo numericamente almeno più importante, il regime stesso prese il nome di mos et consuetudo Graecorum.

E se così largo ed esteso era il campo, entro il quale il regime dotale poteva trovare applicazione in Sicilia; e se oltre di ciò esso rappresentava la pratica cristiana e tradizionalmente secolare nell'isola; un tale regime doveva trovare applicazione ogni qual volta in un matrimonio c'era assegnazione di dote, e non si aggiungeva di voler adottare la regola della comunione. Le carte dei secoli XII e XIII, in cui si parla di beni dotali e di beni costituiti in teoretro (= dotario), e delle quali avremo ad occuparci altrove, offrono di ciò una prima prova. Ma ve ne sono anche delle altre.

Nel 1252 Maria, vedova di Luca di Policastro, e suo figlio Enrico, messinesi, danno in moglie a Leone di Paolo Amalfitano, anche messinese, la loro figlia e sorella rispettiva a nome Bonaventura, e gli assegnano in dote una casa, con facoltà prefatam domum sibi datam in dotem habendi, te

nendi, possidendi, utifruendi, gaudendi et de ipsa faciendi tamquam de re dotali secundum consuetudinem civitatis Messane ».

Nel 1266 il prete Nicola di Santo Antonio, cittadino messinese, dà in moglie una sua figlia Ventura a Matteo Mazia e gli assegna in dote la metà di una casa e la metà pro indiviso di una vigna, e lo immette nel possesso ad ipsam habendam, tenendam, possidendam, utifruendam et gaudendam et de ea et in ea faciendum de cetero tamquam de re dotali libere velle suum » (1).

In questi documenti si ha costituzione di dote, senza alcuna dichiarazione di voler seguire il regime della comunione. Ma non si dice neanche di voler seguire il mos Graecorum; perchè non si sentiva il bisogno di escludere o di limitare il mos Latinorum, che non era stato pattuito.

Siffatte convenzioni matrimoniali erano volgarmente dette alla grichisca, come sappiamo dalle Cons. di Corleone (cc. 5, 17 e 23: an. 1439); le quali nel tramandarci questa denominazione volgare ci hanno conservato un indizio prezioso, che par voglia dire essere stato il regime dotale tanto comune ed usato, che la semplice costituzione della dote e del dotario, quando questo ultimo esisteva, già per sè stessa indicava molto chiaramente, in qual modo i contraenti avessero inteso di regolare i loro rapporti patrimoniali. Nè la formola, che, a quanto riferisce lo Starrabba nel 1. c., diventa frequente nei contratti dalla prima metà del sec. XVI in poi, e che è concepita così: << Pro felici et prospero matrimonio in Dei nomine feliciter contrahendo secundum leges et iura communia, vel, ut vulgo dicitur, alla grichisca o alla greca grecaria », segna un notevole distacco di fronte all'epoca precedente: mentre, d'altra parte, essa serve a farci riconoscere più da vicino la via seguita dallo sviluppo del sistema dotale in Sicilia. Se questo, nei primi tempi in cui era stato introdotto nell'isola il regime della comunione, aveva fatto sorgere il bisogno di una denominazione che servisse nell'uso comune a distinguerlo dal nuovo sistema sopraggiunto, e se tale denominazione erasi desunta dal nome del gruppo etnico più numeroso che lo praticava; quando più tardi, soprattutto dalla dominazione sveva in poi, la conoscenza e la pratica del diritto comune si furono estese, si dovette vedere ben presto, che nella sua sostanza e nelle sue linee fondamentali quel sistema corrispondeva alle norme di un tale diritto. Sicchè, a non lungo andare, esso venne caratterizzato come il sistema del diritto comune, e come tale venne denominato dai giuristi e dai legislatori; mentre la sua denominazione primitiva assunse sempre più l'aspetto di denominazione volgare rimastole poi caratteristicamente scolpito nella corruzione plebea: alla greca grecaria. Già le cons. di

(1) Vedi entrambi questi documenti in BATTAGLIA, Diplomi, p. 154 e 183.

Corleone, in due luoghi, contengono questo doppio modo di denominazione del sistema dotale: (c. 17: « Bona data viro secundum leges et iura communia, vel data alla grichisca »; c. 23: Uxores habentes dotes secundum iura communia vel alla grichisca); e le stesse due denominazioni, delle quali l'una può esser detta la dotta e l'altra la volgare, sono poi quelle che compariscono nella formola usata dal sec. XVI in poi: secundum leges et iura communia, vel, ut vulgo dicitur, alla grichisca, o alla greca grecaria ». Se tutto ciò è esatto, ne segue necessariamente che il sistema della comunione, quale è esposto dalle consuetudini, non fu affatto un regime legale dei rapporti patrimoniali fra coniugi, come sembrerebbe a prima vista e come, più o meno nettamente e coscientemente, è stato finora concepito dagli scrittori moderni. Le consuetudini, in questa parte almeno, non ebbero valore costitutivo nè mirarono ad imporre un regime patrimoniale, che dovesse trovar senz'altro applicazione ogni qual volta facesse difetto un esplicito accordo in senso contrario. Esse ebbero semplicemente un carattere dichiarativo, in quanto fissarono il contenuto dell'usanza, la quale allora soltanto riceveva la sua applicazione ai singoli casi quando era espressamente adottata dalle parti; se no, no. Il Testa c'informa che ai suoi tempi, ossia nel secolo decimottavo, i matrimonii comunemente erano contratti col sistema dotale; e vede in ciò una profonda differenza per rapporto all' età aragonese, quando, secondo la sua supposizione, era stato assolutamente prevalente il regime della comunione. Ma se non son vere le cose dette, una tale differenza non sarebbe esistita e il sistema della comunione sarebbe sempre stato in Sicilia una eccezione; eccezione più o meno usata, ma regola mai.

Sembra però che una limitazione debba farsi a questo risultato. Essa concerne una disposizione singolare contenuta in alcune consuetudini, per la quale, allorchè si univano in matrimonio due nullatenenti, diventava comune ad entrambi tutto ciò che riuscivano come che sia ad acquistare durante la loro unione. Sicchè questo sarebbe un vero caso di comunione legale. Ma se si pone mente che, nel momento in cui tali matrimoni si contraevano, i contraenti non avevano rapporti patrimoniali da regolare, e quindi, come non costituivano nè dote, nè dotario, così non avevano nemmeno opportunità di dichiarare se intendessero di seguire il mos Latinorum; si comprenderà agevolmente come in questo caso la consuetudine si dovesse inspirare al pensiero, che tutto ciò che i coniugi avrebbero acquistato in avvenire dovesse riguardarsi come il risultato e il prodotto dell'opera e del lavoro comune. Può essere interessante però osservare il modo con cui questa disposizione è redatta:

Cons. Messina, c. 10, § 1 (Palermo 46): « Viro et uxore sine dote et dotario, cum uterque nil in bonis habeat, matrimonium contrahentibus, filiis

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non susceptis vel susceptis et premortuis, quecumque acquisita sunt bona communia sunt ».

Lo stesso c. 10 delle Cons. messinesi aveva già stabilita la regola generale: < filio nato et premortuo, patre et matre superstibus, quilibet eorum in tertia eiusdem filii pro media parte succedit, et sic omnia bona sunt inter eos comumnia ». Ora, se questa fosse stata una disposizione imperativa e non dichiarativa, per la quale, ogni qual volta si contraeva un matrimonio senza scelta del regime da seguirsi, fosse entrato in vigore per forza di legge il regime della comunione; o che necessità vi sarebbe stata, quando poi nello stesso c. 10 si fa il caso del matrimonio contratto fra due nullatenenti, di ripetere che, nell'ipotesi della premorienza dei figli ai genitori, i beni acquistati da costoro diventavano fra essi comuni?

Ciò sarebbe avvenuto per legge, se la consuetudine avesse veramente trovato applicazione anche quando non era stato in modo esplicito accettata dai contraenti. Ma siccome nel caso dei nullatenenti era mancata l'occasione di accettarla, e d'altra parte si intendeva nel caso stesso di imporre il regime della comunione; così, e solamente così, s'intende la ragione per la quale si parla non solo di « filiis non susceptis », ma anche di « filiis susceptis et premortuis». Non sappiamo se questa disposizione venisse applicata solo ai nullatenenti, che vivevano iure Latinorum, o anche a quelli che vivevano iure Graecorum. Il modo generico con cui è redatta parrebbe escludere ogni riguardo di nazionalità; ma se è così, la disposizione stessa, o almeno la forma in cui ci è pervenuta, dovette sorgere tardi, quando le differenze nazionali s'erano già molto offuscate.

Nè sembra che questa consuetudine fosse invalsa nella sola Sicilia. Qualche traccia di essa s'incontra anche, se non erro, nei dominii normanni di terraferma; dove ce ne serbò ricordo uno di quei numerosi compilatori di manuali bizantini, che, intenti colà nel secolo decimosecondo a raffazzonare soprattutto le leggi greche, non trascuravano di tener conto anche delle consuetudini locali. L' Ecloga ad Prochiron mutata, in uno di quei «<loci plane singulares, come li chiamò lo Zachariae ('), sulla provenienza dei quali egli si limitò ad annotare: « fontem non invenio », e propriamente nel titolo X, c. 14, ha questa disposizione: εἰ δὲ μὴ ἔχοντες πράγματα πρὸ τοῦ συναλλάγματος, καὶ μετὰ τὸ συναφθῆναι τὰ ἐκ θεοῦ προνοίας ἐπικτηθέντα άupóτEρоι éxéτwoav; la quale, se non c'è errore nei manoscritti che ce la hanno tramandata, ha tutto l'aspetto di essere molto affine al c. 10, § 1, delle consuetudini di Messina. Ma su di ciò sono ancora necessarie altre ricerche. FRANCESCO BRANDILEONE

(1) ZACHARIAE, Ius Gr.-R. IV, p. 52.

INTORNO ALL'ORIGINE DEI COMUNI RURALI IN ITALIA (').

I.

Per rappresentare nettamente tutti i fatti sociali, politici ed economici. che concorsero al costituirsi del Comune rurale in Italia, è necessario fissare anzitutto il significato che noi intendiamo dare alla espressione, in verità molto elastica, di « Comune rurale »; ossia, è necessario dichiarare che cosa noi vogliamo dire quando diciamo che in Italia, intorno ai secoli X, XI e XII, sorsero i Comuni rurali quasi nello stesso tempo che si organizzava il Comune di città.

Parrebbe una questione oziosa, anche perchè nessuno l'ha mai posta e risoluta, nessuno, anzi, ne ha di proposito accennato. Ed era ben naturale che cosi fosse. Ogni volta, infatti, che si è parlato dei Comuni rurali, se ne è sempre parlato in relazione alla storia cittadina, quasi fossero due aspetti di uno stesso fatto sociale. Di essi non si è considerato che la sottomissione al Comune di città e, naturalmente, nella loro storia non si è visto quanto essi avevano di carattere loro speciale; perchè in realtà, quando divennero tributarii delle grandi Repubbliche, dovettero subire una deformazione più o meno violenta e profonda di tutto il loro organismo e diventar tutti altrettante divisioni amministrative di uno Stato maggiore. Da questo punto di vista tanto valeva, poniamo, il Comune di Gambassi o di Montepulciano, quanto quello di Tredozio nella Romagna toscana (2); tanto valeva il Comune di Figline nel Valdarno quanto quello di Castel della Badia nel territorio di Montamiata (3). Eran tutti piccoli Comuni, non presentavano agli occhi dello storico grandi associazioni artigiane e grande sviluppo industriale e commerciale, e la loro storia interna prima della perdita della indipendenza, o

(1) Da un'opera in preparazione, dal titolo: I Comuni rurali in Italia dalle origini al secolo XIV.

(2) Per questo Comune, che esamineremo a suo tempo, v. Archivio di Stato, Firenze, Diplom., Riform. Atti pubblici, 13 maggio 1271; e la nostra edizione di questo atto: Il Comune rurale di Tredozio e i Conti da Romena. Firenze, Galileiana, 1904, pag. 9-14.

(3) Arch. di Stato, Siena, Diplom., S. Salvat. di Montamiata, 14 luglio 1212. Pubblicò questo doc. lo ZDEKAUER, in Bull. senese di Stor. Patria, a. III, fasc. IV, 1897, pag. 374-376.

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