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era una collezione di rescritti fatta per servire come appen dice al Codex Gregorianus. Si dice che in quel tempo vivessero parecchie persone portanti questo stesso nome.

ARCADIUS che nell'iscrizione al D. I, 11, 1 è chiamato Aurelius Arcadius Charisius, magister libellorum, trovasi menzionato nell' Indice Fiorentino come autore di tre libri unici, sulle testimonianze, sull'ufficio dei Praefecti praetorio, e sulle funzioni civili (muneribus). Dalla prima di queste tre opere venne preso il D. L, 4, 18; dalla seconda D. 1, 11; dalla terza quattro frammenti: D. XX, 5, 1; L. 21; L. 25; XLVIII, 18, 10. Tutti questi frammenti occupano 21⁄2 pagine di Hommel. Sembra che Arcadius fosse contemporaneo di Hermogenianus (confronta D. 1, 11, 1 col Cod. Theodos. 1. c.). In D. L, 4, 18, 26 egli cita Modestinus.

CAPITOLO XVI.

IL LATINO DEI GIURECONSULTI (1)

Lo studio del latino dei giureconsulti si presenta sotto tre differenti aspetti: l'aspetto grammaticale, il lessicografico, ed il rettorico; per il che richiederebbe accurate distinzioni fra giureconsulto e giureconsulto, e confronti fra questo e i poeti e gli altri scrittori d'ogni singolo periodo. Ma noi in questo capitolo ci limiteremo a poche osservazioni, in ispecie di carattere grammaticale su certi usi, che destarono la nostra attenzione per essere poco frequenti nel latino classico. Noi non prenderemo in esame che gli scrittori, i quali contribuirono al Digesto; sì il Codice Teodosiano che il Giustinianeo non sono considerati in questo nostro breve studio.

Lo stile dei giureconsulti Latini prima della metà del III° secolo d. C., è in generale semplice, privo d'ogni affettazione e assai affine al parlar famigliare delle classi colte. Sciolto sotto certi riguardi, è breve e preciso quando l'argomento lo richiegga; la lingua è in generale non affettata, efficace, e piacevole; ricca d'espressioni tecniche, ma libera da ogni tau

(1) Tre soli sono i lavori su questo soggetto, a noi noti: 1° Duker, Opuscula varia de latinitate Jurisconsultorum, 1773, libro che consta di varie osservazioni del Valla insieme a risposte e commenti di altri e tratta specialmente di distinzioni nei così detti sinonimi e di quelle parole che non si trovano quasi mai usate negli autori classici. Da questo non abbiamo tolto quasi niente. 2° Brisson, Parerga, uniti al suo lessico, che sono un'accurata collezione di parole, forme e frasi che si trovano nel codice Fiorentino, con ortografia piuttosto strana; alcune delle quali sono state da Mommsen considerate come errori di amanuensi, altre riconosciute come vere e corrette. Noi ce ne siamo serviti alquanto. 3o Un interessante sunto di un lavoro di prossima pubblicazione del Signor W. Kalb sul latino di Gaio, che trovasi nell'Archiv für latein Lexicographie, tom. I, 1884. In tutti i punti nei quali noi ci siamo serviti di questo lavoro n'abbiamo citato l'autore.

tologia o circonlocuzione; pura e comprensiva, ma facile ad intendersi quando chiaro e famigliare sia l'argomento trattato. Malgrado questi pregi noi troviamo spesso difficoltà e passi oscuri, ma ciò deve attribuirsi specialmente a due cause. 1o Che si cerca di comprendere più di quanto l'autore ha voluto far conoscere, per la smania di ottenere schiarimenti su punti di diritto non contemplati nel passo speciale preso in esame e spesso nessuno nel Digesto, e che sempre sorgono dubbi quando si usa dell' interpretazione per svolgere difficoltà; 2° che il Digesto essendo stato compilato in gran fretta, nel modo da noi già esposto, doveva naturalmente riescire in certi punti

oscuro.

Quest'ultima causa si collega in modo speciale al lato grammaticale del nostro studio. Le uniche fonti di latino giuridico. sono da un lato: iscrizioni e formulae riportate; dall'altro: Gaius, i frammenti Vaticani insieme a pochi altri. Le prime hanno importanza ed interesse affatto speciale considerate come esempi dello stile curiale cioè dello stile dei procuratori, avvocati, ecc., ma sono naturalmente scarse. Le altre fanno parte della letteratura giuridica e quindi sono scritte più liberamente e maggiormente si confanno al nostro scopo. Ma sì di Gaius che dei frammenti Vaticani non ci è stato conservato che un solo MS. il quale però è più antico e puro di molti altri. Della lex Dei o Collatio Mosaicarum ac Romanarum legum p. e. si conservano tre Mss. ma poco autorevoli; le sententiae di Paulus e le regulae d'Ulpianus sono in generale considerati come un compendio fatto da qualche incognito in un'epoca più o meno lontana. Lo stesso Digesto che da solo è base sufficiente per lo studio del latino giuridico non può essere accettato con piena fiducia. Certo fu combinazione fortunata che il carattere ed il copista del MS. Fiorentino fossero di sola persona per quanto riguarda la genuità del testo Giustinianeo, ma questo stesso lascia luogo a sospetto e peggio. Gli scritti dei giureconsulti vennero manipolati spesso barbaramente nel 6' secolo dell'era nostra dai Greci, i quali si interessavano al diritto, ma non facevano alcun conto dell'esattezza d'espressione delle scritture originali, o delle eleganze dello stile. Un confronto delle istituzioni di Gaius e dei

Giuristi contenuti nei frammenti Vaticani col Digesto serve assai bene a dimostrare quanto abbiamo detto. Nei primi lo stile è generalmente più regolare che nel Digesto. Alcune anacolutha sono indubbiamente dovute alle forbici dei compilatori, ma questo non è il luogo opportuno per parlarne (Vedi Roby, de usufructu, pagg. 173, 192, 202, 249 ecc.) e nemmeno teniamo conto qui dei probabili errori (1) dei copisti; questi sono raccolti nell' edizione di Mommsen.

Il latino dei giureconsulti confrontato con la lingua di Cicerone e di Quintiliano si mostra più evoluto benchè sotto certi aspetti non sia migliore. In Plauto Catone e Varrone che usarono la lingua parlata, più che nei retorici ed oratori, trovansi precedentemente usate forme comuni ai giuristi; ma in questi l'uso dell'indicativo e del soggiuntivo ha già perduto una parte della sua pristina efficacia, e già si manifesta qualche incertezza nell'uso dei tempi principali e secondari.

MODI E CONGIUNZIONI

1. Quanto abbiamo detto sopra è mostrato ad evidenza dall'uso dei modi e dei tempi ipotetici, frequentissimo nel Digesto. Cicerone nel suo libro de Officiis, III, 23 (Roby, Gram. Lat. §§ 1532, 1533), in tutti i punti ove occorrono proposizioni ipotetiche si serve indifferentemente del futuro indicativo, del presente o soggiuntivo, ma una volta che si sia servito di uno di questi tempi lo conserva in tutta la proposizione. Non così avviene nel Digesto: in esso in una sola proposizione trovansi usati colla massima libertà tempi diversi, in contrasto l'uno coll'altro. A mostrare ciò con più chiarezza confrontiamo un altro capo di Cicerone, che ha grandi rassomiglianze coi casi contemplati nel Digesto.

Cic. Off. III, 24, §§ 92, 93. Si quis medicamentum cuipiam dederit, ad aquam intercutem pepigeritque, si eo medicamento sanus factus

uti

(1) E. g. non crediamo che alcuno scrittore latino di quest'epoca avrebbe potuto scrivere: vix est ut legatarium VOLUIT dare (D. XXX, 114, 4), exigeret et ea contentus ERIT (XXXII, 37, 4), nemo dubitat quin non SOLET (D. XXIX, 2, 72), ecc. ecc.

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esset, ne illo medicamento umquam postea uteretur, si eo medicamento sanus factus sit et annis aliquot post inciderit in eundem morbum nec ab eo, quicum pepigerat, impetret ut iterum eo liceat uti, quid faciendum sit? Cum sit is inhumanus, qui non concedat, nec ei quicquam fiat iniuriae, uitae et saluti consulendum. Quid? si quis sapiens rogatus sit ab eo, qui eum heredem faciat, cum ei testamento sestertium milies relinquatur, ut ante quam hereditatem adeat, luce palam in foro saltet,' idque se facturum promiserit, quod aliter heredem eum scripturus ille non essel, faciat quod promiserit necne? Promisisse nollem et id arbitror fuisse gravitatis. Quoniam promisit, si saltare in foro turpe ducet, honestius mentietur, si ex hereditate nihil ceperit, quam si ceperit, nisi forte eam pecuniam in rei publicae magnum aliquod tempus contulerit, ut uel saltare, quum patriae consulturus sit, turpe non sit.

Nel primo periodo di questo passo abbiamo l'ipotesi espressa col soggiuntivo, ma poi anche nell' apodosi faciendum sit, come anche nella protasi si dederit pepigeritque... si factus sit... et inciderit nec impetret (Cf. Roby, Gram. Latina, § 1532), è usato lo stesso modo.

Lo stesso dicasi del 3° periodo e del 5' nel quale è usato il futuro costantemente sì nella ipotesi che nella protasi si..... ducet che nella apodosi mentietur. Ceperit e contulerit devono venire considerati come futuri perfetti indicativi (Cf. Gram. Latina, § 1533).

Inoltre i perfetti soggiuntivi nella prima e terza proposizione si riferiscono al tempo precedente i presenti impetret e faciat- Pepigerat è un più che perfetto perchè si riferisce ad un tempo precedente inciderit, ed è indicativo perchè trovasi in una preposizione relativa, che definisce la persona già indicata col quis.

La differenza che passa fra queste due preposizioni, è che nella prima l'imperfetto ne uteretur è seguito da pepigerit, nella terza invece il presente ut adeat è seguito dallo stesso tempo usato nella prima proposizione, rogatus sit. Sì l'una che l'altra di queste due proposizioni è usata correttamente; nella prima si prese l'imperfetto per distinguere il tempo del contratto dal tempo in cui occorre il fatto su cui si è stipulato. Il patto era passato, e quindi si factus esset, ne uteretur; l'occorrenza è ROBY - Introduzione al Digesto.

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