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vere la Corte, ma volendo che la sua difesa consistesse nella semplice verità, esposta semplicemente senza esagerazione od arte rettorica. Con questi criteri egli si difese; Q. Mucio parlò per lui, ma solo il nipote suo Cotta ottenne di pronunziare alcune frasi eloquenti in suo favore. (Cic. Brut. 30). Così, dice Cicerone, l'uomo ch'era tanto innocente quanto sapiente, l'uomo più onesto e buono che Roma potesse vantare, (neque integrior, neque sanctior) fu condannato, perchè l'eloquenza non fu usata al suo giusto scopo, e la causa venne discussa come se Roma fosse la repubblica di Platone (Cic. Or. I, 53). Egli se ne andò in esilio e con fiducia scelse l'Asia, e le città Asiatiche desiderose di protestare contro l'ingiustizia dell' accusa, mandarono deputazioni per salutarlo al suo arrivo (Val. Max. II, 10. § 5). Nell'anno 88 a. C. (Dio Cass. Fr. 97), noi lo troviamo in Mitelene, quando Mitridate vi si recò ad ordinare che tutti i Romani fossero posti a morte (App. Mithr. 22, 23). Rutilio sfuggì alla sorte comune vestendosi alla foggia greca (soccos et pallium Cic. Rab. Post. 10). Così evitò miracolosamente quel pericolo ed adottata l'Asia come sua casa, come sua patria, si fece cittadino di Smirne (Cic. Balb. 11). Ivi lo vide Cicerone nell'anno 78 a. C. e, come egli dice (R. P. I, 8, 11), udì da lui le conversazioni che poi incorporò nei suoi libri de Republica. Quando alcuno tentava consolarlo col pensiero di una prossima guerra civile, per cui tutti gli esigliati fossero richiamati, Rutilius rispondeva. «Che male v'ho io fatto d'augurarmi a un ritorno peggiore della mia partenza? Io vorrei che la mia patria arrossisse del mio esiglio piuttosto che lamentarsi del mio ritorno (Sen. Ben. VI, 37) ». P. Sulla, probabilmente il nipote del dittatore, propose di richiamarlo, ma egli rifiutò (Quintill. XI, 1. § 13). Ovidio sofferente nella solitaria Tomi, spiega la pazienza di Rutilius col fatto che Smirne era una delle più gaie residenze del mondo (Pont. I, 3, 63).

Cicerone non si stanca mai di lodarlo e di piangerne la perdita. Il suo carattere e l'esilio sofferto lo resero degno di essere citato frequentemente da Seneca insieme a Regulo, Socrate ed altri (e. g. Dial. III, 3 § 4, ecc.). Egli fu documentum hominibus nostris virtutis, antiquitatis, prudentiae (Cic. Rab. P. 10): vir non sui saeculi sed omnis aevi optimus (Vell. II, 13). Aveva

assistito alle lezioni di Panaetius (in Atene?) e può essere chiamato un maestro perfetto del sistema stoico; era versato nella greca letteratura; per naturale disposizione impetuoso e pronto all'attacco; molto occupato come giureconsulto, ed ancora pronto sempre a spender tempo e ad affaticarsi come avvocato nei tribunali. Il suo stile oratorio fu severo ed acuto, ma troppo leggiero per essere popolare o persuasivo. (Cic. Brut. 30; D. I, 2, 2. § 40).

Benchè l'identità non sia positivamente stabilita, non v'è dubbio che egli sia quel Rutilius o P. Rutilius del quale si racconta che fece un discorso de modo aedificiorum che Augusto pubblicò poi per mostrare che i suoi progetti erano conformi a quelli sostenuti dai grandi Repubblicani (Svet. Aug. 69). Sembra che Augusto proibisse che si fabbricassero edifici presso le vie pubbliche di un'altezza maggiore di 70 piedi (Strab. V, 7. p. 235). A ciò allude certamente Svetonio (Maians. II, p. 354). Come pretore egli fece due grandi riforme: La prima riferentesi alla vendita della proprietà dei debitori che per insolvenza, fraudolenza od ostinatezza non avessero soddisfatto ai loro debiti dopo il giudizio, o fossero morti senza lasciare alcun rappresentante legale (Gai III, 78 s.) Si dice che Rutilius ponesse in uso questa vendita della proprietà come un sol tutto, probabilmente per analogia alla sectio bonorum alla quale erano obbligati i debitori; e migliorasse la formola con la quale il compratore perseguitava i suoi diritti in casi simili. Ciò soleva prima avvenire per mezzo d'una finzione per la quale l'emptor bonorum aveva gli stessi diritti del primo proprietario; Rutilius compose la formula differentemente. Egli concepì l'intentio direttamente in nome del primo proprietario, ed inserì nella clausola della condanna il nome del compratore, come quello che aveva diritto al giudizio (ib. IV, 35: cf. Puchta § 179. Kuntze § 274).

La seconda riforma di Rutilio era intesa a scemare le eccessive questioni che i patroni facevano coi loro liberti: egli negò ai patroni azioni contro i loro liberti eccettochè per costringerli ai dovuti servizi (operae vedi D. XXXVIII, 1), o dare effetto ad un contratto conchiuso dal patrono per essere a parte

della proprietà del liberto (D. XXXVIII, 2, L. 1 ; ib. L. 1, 2); o per costringerli al dovuto rispetto (obsequium vedi D. XXXVII, 15).

La sua opinione è citata nel Digesto VII, 8, 410, 3; XXXIII, 9, 3, 9; XLIII, 27, 1, 2; e da Gellio (IV, I, § 22) possiamo dedurre che l'opinione attribuita a Rutilio nel D. XXXIII (1. c.) venisse da prima citata da Sabino e che Ulpiano probabilmente la prendesse di seconda mano, come fece di molte altre.

Rutilius scrisse un' autobiografia in latino ed una storia in greco. I pochi frammenti e citazioni rimasti vennero raccolti da H. Peter. Hist. Rom. Frag. pp. 122-124 ed. min.

DRUSUS è citato una sola volta nel Digesto (XIX, 1, 38, 1) accanto a Sextus Aelius e probabilmente è quel giureconsulto cieco, la cui casa a dir di Cicerone era sempre piena di clienti (T. D. V. 38: cf. Val. Max. VIII, 7. § 4).

Fra gli altri giuristi citati da Pomponius tra Rutilius e Q. Mucius pontifex abbiamo:

PAULUS (AULUS) VIRGINIUS che probabilmente è quello stesso A. Virginius nominato insieme con Rutilius in Cic. Lael. § 101. SEXTUS POMPEUS fratello di Gn. Pompeo Strabone e zio di Gneo Pompeo Magno. Di lui dice Cicerone: praestantissimum ingenium contulerat ad summam iuris civilis et ad perfectam geometriae et rerum stoicarum scientiam (Brut. 47).

CAELIUS ANTIPATER; visse circa ai tempi della II guerra punica sulla quale scrisse una storia in 7 libri. I frammenti rimasti sono raccolti da H. Peter pp. 98-108. Cicerone (Brutus 26) dice: Caelius Antipater scriptor, quemadmodum videtis, fuit ut temporibus illis luculentus, iuris valde peritus, multorum etiam, ut L. Crassi, magister. Pomponio tolse indubbiamente questo nome da Cicerone.

CAPITOLO VIII.

GIURISTI DEL TEMPO DI CICERONE

Q. MUCIUS, il nome completo del quale era Q. Mucius P. F. P. N. Scaevola comunemente distinto col titolo di pontefice da Q. Mucio Q. F. Q. N. l'augure, cugino del di lui padre, è il primo scrittore le cui opere vennero usate nel Digesto. Figlio di un illustre giureconsulto egli seppe conservare le tradizioni famigliari come uomo, come cittadino, come giurista. Nel 106 a. C. fu console (Cic. Brut. 43 § 161) e nel 104 edile curule insieme a L. Licinio Crasso il grande oratore; in quell'anno essi diedero splendidi giuochi (Cic. Off. II 16 § 57). Plinio fa speciale menzione di Scaevola come di quegli che per la prima volta offrì in Roma una lotta di più leoni insieme. Circa l'anno 98 a. C. (Mommsen Gesch. II p. 211 ed. 7) Scaevola (pretore, paτnyos?) fu governatore dell'Asia; egli prese seco come legato P. Rutilio e benchè il suo governo non durasse che 9 mesi (C. Att. V, 17. § 5) la fama ne sopravvisse lúngamente. Poichè egli supplì del proprio ad ogni spesa, ed amministrò con grande equità la giustizia fra i provinciali e gli indigeni, non permettendo che alcuno del suo seguito venisse assunto come giudice nelle cause. I condannati erano obbligati alla restituzione e quelli colpevoli di delitti capitali, giustiziati. Tra questi si narra di un personaggio importante che, benchè offrisse immense somme per ottenere un'attenuante della pena incorsa, venne crucifisso. (Diod. Sic. XXXVII, 6-8; Cic. Verr. II, 13 § 34). Il Senato approvò la sua condotta e la segnò ad esempio ai futuri governatori dell' Asia (Val. Max. VIII, 15. § 6); i provinciali diedero poi feste pubbliche in suo onore (C. Verr. II, 22, § 51).

I publicani ed i loro amici, gli Equites, si risentirono tanto della sua condotta, che accusarono Rutilio di estorsione. La

corte avendolo condannato all'esiglio, Scevola lo difese a dir di Cicerone more suo nullo apparatu pure et dilucide, ma senza il vigore e la forza che l'avrebbe potuto far vincere in simile caso (Cic. Or. I, 53, § 229; Bruto, 30, § 115). In questo frattempo Scevola era stato console insieme a L. Licinio Crasso nel 95 a. C. (Brut. 64 § 229) col quale presentò una legge che aveva per iscopo di concedere agli Italiani i privilegi Romani, non con concessioni politiche, ma mediante una disastrosa pedanteria legale. La Lex Licinia Mucia de civibus regundis (cf. finium regundorum iudicium) trattava dei diritti degli Italiani alla cittadinanza Romana, alla stessa guisa che un giurista avrebbe potuto trattare i mezzi d'impadronirsi a poco a poco delle terre vicine alle sue. Ciascuno doveva essere cittadino del proprio stato, e non poteva chiedere nè esercitare i diritti d'un altro stato (Cic. Corn. 67 e Ascon. ad loc.; Off. III, 11, § 47). Dopo 5 anni scoppiò la guerra sociale. Scaevola venne creato pontefice massimo; non sappiamo in quale anno. Ai funerali di C. Mario 86 a. C. C. Flavio Fimbria uno dei più violenti aderenti di quello tentò d'assassinarlo. Egli rimase ferito, ma non mortalmente, sul che Fimbria richiesto del perchè rispose perchè ho sbagliato il colpo. Di lì a 4 anni i Mariani raggiunsero il loro scopo: nell' 82 a. C. Damasippo, dietro ordine di Mario il giovine, che allora si trovava serrato in Preneste, da Silla, assali ed uccise Scevola, innanzi alla statua di Vesta secondo l'opinione d'alcuni, a dir d'altri presso la Curia Hostilia (Cic. Or. III, 3, § 10; N. D. III, 32, § 80; Vell. II, 26; App. B. Cic. 1, 88).

Scaevola e Crassus si trovarono spesso avversari nell' esercizio della loro professione. Cicerone (Bruto 42, § 155) dice che Scaevola se ne compiaceva sebbene fosse inferiore e che Crasso rifuggiva dal dar giudizio su punti di diritto, sapendo che Scaevola era in ciò più valente di lui. In un caso famoso M. Curius . M. Coponius, che Cicerone nomina spesso, (Or. I, 39, § 180; Brut. 39, § 145; 52, § 194; Cecin. 18, § 53), venne designato erede a condizione che il figlio postumo del testatore morisse prima di divenir maggiorenne. Scaevola sostenne innanzi ai Centumviri doversi seguire strettamente il testamento, e che essendo mancata la condizione, Curius non aveva

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